Le startup italiane fanno fatica a crescere?



Se fino a qualche anno fa, l’obiettivo dell’ecosistema startup italiano era quello di trovare il suo primo unicorno, oggi la questione è un’altra. Una startup che nasce in Italia, che poi si sposta all’Estero e da lì realizza la propria exit può essere considerata italiana?

In questo podcast non entriamo nel merito dell’annoso dibattito (che si ripete come un mantra ogni volta che si verifica un avvenimento del genere), ma ci siamo piuttosto chiesti: “Il mercato italiano ha un problema con la crescita delle startup?”

La domanda arriva da Fabio Sferruzzi CEO di Echoboost e Daniele Mogavero, fondatore di Hi founder, che hanno co-prodotto questo podcast. Oltre a loro, in questo episodio, per trovare una risposta convincente a questa domanda abbiamo chiesto un parere anche a Lucrezia Lucotti di 360 Capital e Silvia Mion di H-FARM.


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Un ecosistema non (ancora) focalizzato sulla crescita

Per capire se e perché una startup italiana faccia fatica a crescere è necessario guardare all’ecosistema in cui si muove. Secondo Fabio Sferruzzi quello italiano non è un ecosistema focalizzato sulla crescita. A suo avviso infatti, gli attori che lo compongono non fanno abbastanza per supportare le startup nella fase post lancio. C’è poi un problema di “cultura”, come dice Daniele Mogavero, che spesso vede tra gli startupper e i founder la volontà di voler crescere, ma senza una conoscenza adeguata per farlo.

I due hanno messo in piedi un questionario per capire quali possano essere i bisogni e le necessità delle startup italiane in fase di crescita. Se ti va di contribuire puoi dire la tua.

La raccolta dei capitali è un processo ancora troppo lento e la capacità di “fare rete”

Visto che il tema è la crescita, il primo punto che ci sembrava importante trattare è quello della raccolta di capitali. Abbiamo perciò parlato con Lucrezia Lucotti di 360 Capital che lavora tra Italia e Francia. La sua prospettiva è interessante perché può mettere a confronto i due mercati. A suo giudizio l’ecosistema italiano è ancora troppo lento, un fattore che non può che penalizzare chi vuole crescere tanto e subito come chi fa startup. Uno degli ostacoli alla lentezza della crescita secondo lei è poi l’ossessione che molte delle startup italiane hanno per il B2C. Il voler vendere al dettaglio si porta dietro spesso tanto lavoro di marketing e comunicazione a fronte di ricavi che arrivano con tempi lunghi (sempre che arrivino, è ovvio).

C’è però il mondo della ricerca e degli spinoff che, secondo Lucrezia, può davvero permettere all’Italia di fare la differenza nei prossimi anni. Sarà determinante il supporto che la filiera che sta tra gli startupper e gli investitori saprà dare all’intero comparto. Stiamo parlando di enti come acceleratori e incubatori e qui entra in gioco l’ultimo ospite di questo podcast, Silvia Mion di H-FARM.

Quando parliamo di crescita e startup Silvia non ha dubbi: il “fare rete” è l’elemento che non può mancare. Lo sa oggi che si occupa dei processi di open innovation all’interno di H-FARM, ma lo ha compreso negli anni in cui ha frequentato l’incubatore veneto come startupper.

Alla luce di questa doppia esperienza, ha maturato la convinzione di come sia necessario abbattere l’individualismo che caratterizza l’ambiente startup italiano. Questa “lotta” può essere affrontata in primis proprio dagli incubatori e acceleratori che hanno il compito di connettere le startup tra loro e con il resto delle imprese. Questo mondo infatti oggi è sempre più disposto a introdurre processi innovativi nel proprio lavoro quotidiano.

Una piccola nota conclusiva

Questo è l’ultimo episodio di Start Me Up della stagione e forse l’ultimo in generale. Ho infatti deciso di mettere in pausa l’avventura che è iniziata nel 2014 e che per 8 stagioni ha prodotto in modo più o meno regolare più di 300 podcast.

Dire che è stata un’esperienza pazzesca sarebbe sminuire tutto quello che in questi anni ho vissuto: non riesco a pensare a quanti progetti, amicizie e “cose” sono nate parlando dietro i microfoni di Start Me Up.

Ringraziare tutti uno per uno sarebbe impossibile: dico solo che è stato bello contare sul supporto di chi ha contribuito in qualsiasi modo alla riuscita di questo podcast. Grazie anche a chi lo ha ascoltato, anche solo per un minuto, e a chi lo ha commentato e condiviso. Niente era dovuto e tutto è stato più che apprezzato!

Start Me Up tornerà, ne sono certo, in un modo che ancora non so bene quale sarà. Nel frattempo, gli episodi saranno online e potrai ascoltarli come hai fatto sempre.

Alla grande!

Fabio


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La capacità di abitare e il senso profondo dell’autocostruzione.



La capacità di abitare, è secondo una citazione attribuita a Martin Heidegger, il requisito indispensabile per costruire. L’ospite di questo podcast non cita direttamente il filosofo tedesco, ma l’assunto di Heidegger è perfetto per introdurre il tema di questa puntata di Start Me Up. Il costruire. Un costruire visto però non come azione da demandare ad altri, ma come qualcosa da fare in prima persona, cioè l’autocostruzione.

E chi può spiegare meglio questi concetti se non Marco Terranova, architetto, artigiano e facilitatore di cantieri collettivi?


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L’autocostruzione come tema “politico”.

La capacità di abitare, mi dice Marco, è qualcosa che come società abbiamo dimenticato quando abbiamo iniziato a demandare ad altre azioni come il costruire la propria casa in autonomia, coltivare il proprio orto per avere il cibo. Questo ragionamento sottolinea l’aspetto “politico” dell’autocostruzione. Un modo che hanno i gruppi di persone (o in generale la società) per stabilire il proprio destino. Durante l’intervista, Marco – che si occupa di cantieri collettivi e di autocostruzione ormai da anni – evidenzia gli aspetti peculiari di questa pratica che si basa sull’esperienza, sul mettersi in gioco in prima persona e che ha in sé una dose di disobbedienza civile.

Chi è Marco Terranova

Marco Terranova è un architetto ed artigiano del legno, che negli anni ha prodotto e sviluppato un’attività professionale all’insegna della collaborazione e del lavoro di squadra, della sostenibilità e dei materiali naturali.
Il suo progetto, Senzastudio, evoca un’identità un poco nomade ma anche un’estrema adattabilità a contesti ed opportunità. Il fiore di larice del logo è simbolo di una storia personale vissuta tra il respiro calmo delle foreste alpine e l’orizzonte blu del Mediterraneo.

La citazione di Marco su La capacità di abitare e i cantieri di autocostruzione


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Intelligenza Artificiale e supermercato: perché potremmo non avere più scaffali vuoti.



Esiste un filo conduttore che collega lievito di birra e intelligenza artificiale: è stato il primo pensiero dopo aver chiuso la telefonata con l’ospite di questo podcast. Ed è un collegamento, seppur azzardato, comunque fedele alla realtà.

Sì perché la storia della startup protagonista di questa puntata di Start Me Up ha inizio durante il lockdown da una skype call: una semplice riflessione che ha portato, un paio di anni dopo, Giulio Martinacci, toscano, a vivere in Puglia e a aiutare chi lavora nei supermercati a ottimizzare i propri flussi di approvvigionamento della merce grazie all’utilizzo dell’intelligenza artificiale.

Giulio è il co-founder di Tuidi e in questo podcast racconta la sua storia e quello che ha imparato fin qui dal fare azienda.


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Intelligenza Artificiale al servizio di chi fa la spesa

Tuidi è la soluzione sviluppata da Giulio Martinacci e Vincenzo Morelli che permette a chi lavora all’interno della GDO di gestire al meglio le proprie scorte. Il supporto offerto da questa startup si basa sull’impiego di Intelligenza Artificiale che attraverso l’elaborazione di una serie di dati riesce a fornire delle previsioni sulle vendite particolarmente accurate.

I vantaggi sono chiari: chi gestisce un supermercato saprà quando rifornire uno scaffale e con quale specifico prodotto. I clienti saranno più soddisfatti perché riusciranno sempre a trovare ciò di cui hanno bisogno. E anche chi lavora all’interno di un supermercato può beneficiare del supporto dell’intelligenza artificiale. Racconta Giulio che i dipendenti di alcuni punti vendita che adottano già la soluzione proposta da Tuidi hanno ridotto di un’ora il loro monte ore giornaliero: lavorare meno per lavorare in modo più efficiente.

Lockdown e quella mancanza di prodotti sugli scaffali

Tuidi è nato durante il primo lockdown in una skype call tra i due co-founder. Per i due amici era paradossale che entrambi non riuscissero a trovare i prodotti che a loro servivano. In quel periodo Giulio viveva in Italia e non riusciva a trovare il lievito per fare il pane (più che lui, in realtà, suo padre), mentre Vincenzo era in Francia dove – racconta – era impossibile trovare la carta igienica: da qui l’intuizione di poter utilizzare l’intelligenza artificiale per ridurre il rischio del cosiddetto “vuoto a scaffale”.

Da quella chiamata è partito il primo processo di validazione e nel giro di un paio di settimane i due amici stavano già lavorando a quello che poi sarebbe diventato Tuidi.

Il Sud Italia come terra ricca di opportunità

Lo sviluppo di Tuidi ha portato Giulio dalla Toscana alla Puglia dove oggi ha sede l’azienda. La possibilità di vivere al Sud Italia è un’opportunità in termini di mercato. Soprattutto in questa parte di Italia, la GDO è affidata a una serie di aziende molto piccole e diverse tra loro: un contesto in cui la soluzione offerta da Tuidi può realmente fare la differenza, alla luce anche dei cambiamenti nel modo di fare la spesa da parte degli italiani.

La citazione di Giulio su Intelligenza Artificiale e Supermercati

In Tuidi, Giulio riflette tutto ciò che fino ad oggi ha vissuto da un punto di vista imprenditoriale: dalla prima idea di impresa, “un tripadvisor per gli universitari” realizzata insieme a Vincenzo, all’esperienza da dipendente all’interno di Washout.

Nell’intervista sottolinea come sia la pazienza l’elemento di forza di chi fa impresa. Una disposizione d’animo che ha in sé la fermezza di chi crede nelle proprie idee e l’umiltà di chi sa comunque mettersi in discussione. Due caratteristiche che descrivono alla perfezione cosa significhi fare startup.


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La psicoterapia cambia volto con il digitale e l’ironia: la ricetta di unobravo.



In Italia sta cambiando la sensibilità delle persone verso la psicoterapia. Non possiamo certo dire che questa disciplina sia ormai sdoganata ma è certo che la situazione sia diversa rispetto a qualche anno fa.

Come tutti i cambiamenti di tipo culturale, anche in questo caso è necessario che passi del tempo affinché si modifichi il senso comune. Ciò può avvenire se si agisce su più fronti: c’è il digitale che fa la sua parte, ad esempio, rendendo più facile l’accesso al servizio. Ma il digitale da solo non può essere determinante.

Forse anche per questo motivo c’è chi ha deciso di trattare con ironia, seppur mantenendo sempre il rigore necessario, un tema delicato come la psicoterapia. Stiamo parlando di unobravo che permette a chiunque lo desideri di trovare online lo psicologo più adatto alle proprie esigenze.

Abbiamo parlato con Danila De Stefano, founder di unobravo, e, oltre a ripercorrere a grandi linee la storia di questa startup, abbiamo parlato di come il digitale da solo non basti per cambiare lo status quo nel nostro Paese.


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unobravo, il servizio che ti aiuta a trovare quello bravo veramente…

… almeno secondo i canoni di chi si occupa della selezione! Scherzi a parte, nella prima parte dell’intervista Danila ci spiega come il punto di forza di unobravo sia dare la possibilità a ogni paziente di trovare lo o la psicologo/a più adatto/a alle proprie esigenze. A monte c’è quindi una selezione che tiene in considerazione ovviamente la formazione del professionista ma anche una serie di fattori umani che hanno un peso sulla scelta del candidato.

Partendo poi dai dati che in questi anni la piattaforma ha raccolto ci facciamo raccontare da Danila il tipo di utenza che frequenta unobravo e le potenzialità e i limiti della terapia online. Piccolo spoiler: tutti i lati negativi potranno essere risolti presto, quando la tecnologia lo permetterà.

La citazione di Danila di unobravo

C’è poi il tema del cambiamento di tipo culturale. In Italia non possiamo certo dire che la psicoterapia sia un tabù, ma possiamo affermare tranquillamente che sia ancora un argomento su cui girano falsi miti. La missione di unobravo è anche quella di cambiare questo “stato delle cose”; per farlo utilizza il digitale ovviamente. E non solo perché le sedute sono online, ma anche perché, periodicamente, questa azienda organizza campagne di sensibilizzazione e utilizza i propri canali social come mezzo di divulgazione.

Comunicazione ironica ma mai superficiale

Come abbiamo sottolineato in precedenza, il digitale da solo non può bastare: per arrivare a più persone possibile unobravo si affida all’ironia. Attenzione! In questo caso “leggerezza” non va associata a superficialità! Lo precisa Danila e racconta che alcuni pazienti e professionisti hanno trovato “offensivo” questo ricorso al nome “unobravo”. “Per fortuna sono pochi”, ammette sollevata la protagonista di questo podcast, ma, per quanto piccolo, questo dato dice molto sullo stato del dibattito pubblico sulla psicoterapia.

Un dibattito che unobravo contribuisce a arricchire attraverso il proprio servizio e la sua comunicazione.


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Confessioni di un professionista della comunicazione al Sud Italia



Un podcast dedicato più alla comunicazione che alle startup. Sempre mantenendo, ovviamente, la prospettiva meridionale che caratterizza il racconto di Start Me Up.

E quindi si parla di pubblicità che troppo spesso sono brutte e che non si trovano solo al Sud Italia, di cosa significa lavorare da remoto per una agenzia che negli anni passati ha creato sedi al Nord Italia per “stare vicino ai clienti” e quali sono le competenze che un’agenzia che lavora con clienti nazionali e internazionali cerca in un collaboratore.

Il protagonista è Pasquale Esposito Lavina CEO e co-founder di Im*media, agenzia di comunicazione che opera da più di 25 anni in questo campo.


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Il ruolo del digitale nel commercio e nella comunicazione

Il mondo della comunicazione è decisamente cambiato: e non hai bisogno di ascoltare questo podcast per saperlo. È però interessante notare come il digitale abbia profondamente sradicato alcune storpiature che inevitabilmente in alcuni casi restano, in un mondo che prima aveva come riferimento solo il contesto locale. Da quando ha fondato Im*media, Pasquale Esposito Lavina ha visto come il digitale ha da una parte aiutato le aziende – anche quelle più piccole – a “lasciarsi andare”. Contemporaneamente sempre il digitale ha fornito sia alle imprese che ai professionisti che oggi lavorano nel campo della comunicazione un linguaggio comune da cui partire e creare.

Lavorare al Sud: un valore non solo per chi “torna”.

Back To Sud è il nome della campagna di recruitment lanciata da Im*media. Lo scopo è – in estrema sintesi – intercettare tutti quei professionisti che, sull’onda del ritorno al Sud Italia, hanno scelto di tornare in Sicilia per svolgere la professione che amano. Insieme a Pasquale cerchiamo di capire cosa – al di là degli aspetti tecnologici e di quelli legati alla pandemia – sia effettivamente cambiato in questa voglia di Sud Italia. Un ritorno che non ha più il sapore del compromesso e che rappresenta un valore per quelle aziende che si avvalgono della consulenza di quelle agenzie che hanno una sede da Roma in giù.

La citazione di Pasquale di IM*MEDIA

Quali sono le competenze per lavorare in un’agenzia di comunicazione? E come può una startup comunicare il proprio valore anche a costo zero? L’ultima parte dell’intervista a Pasquale Esposito Lavina è dedicata agli aspetti pratici del mondo della comunicazione. Infine il nostro ospite svela una piccola curiosità sull’asterisco che c’è dentro il nome di “im*media”. Un indizio? C’entra un fallimento…


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Dalla Sardegna uno startup studio per innovare l’ecosistema imprenditoriale italiano



Sono convinto che la parte più interessante dei processi innovativi è il modo in cui si ibridano quando iniziano a diffondersi in luoghi diversi da dove sono nati. Per questo motivo osservo l’esperienza di Kitzanos da tanto tempo e finalmente riesco a raccontarla in uno dei podcast di Start Me Up.

Kitzanos è uno startup studio (o Venture-Builder) sardo ed è uno dei pochi al Sud Italia. Come è facile immaginare guardando il board dei co-founder, il modello originale di questo tipo di impresa si è contaminato presto con il luogo in cui risiede. Questa “ibridazione” si comprende ancora di più ascoltando le parole dell’ospite, Nicola Pirina, che è l’amministratore delegato di Kitzanos.

Grazie a lui anche questo podcast si fa un po’ più “ibrido”. Perché parlando di creazione di impresa, il discorso poi vira verso il valore che tutto l’ecosistema italiano dell’innovazione potrebbe trarre da un rapporto più sano con il fallimento. Poi tocchiamo forse il tema dei temi cioè la relazione complicatissima che c’è fra il mondo dell’istruzione e quello del lavoro. E infine sottolineiamo quanto importante sia il ruolo sociale dell’impresa, soprattutto nel contesto italiano.

 


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Il modello originale di startup studio

Kitzanos è uno dei pochi startup studio (o Venture-Builder) che hanno sede al Sud Italia. A leggere Wikipedia uno Startup Studio è “un’azienda che, attraverso un processo detto di imprenditoria parallela, crea più startup in parallelo fornendo supporto alle aziende create dall’ideazione fino all’Exit. Uno Startup Studio può anche essere chiamato Venture-Builder o Startup Factory”. Questa è la mission di Kitzanos che affianca a questo modello anche consulenza per PMI e Pubbliche Amministrazioni mettendo a disposizione le proprie competenze per il rinnovo dei processi e delle policy.

Ma il tipo di startup studio proposto da Kitzanos si “anima” di ciò che ruota attorno al territorio in cui opera. E così non c’è un focus sui copycat, nonostante – ammette Nicola – “il mercato delle risorse umane delle startup che non hanno funzionato” sia molto interessante. Secondo Nicola Pirina infatti tutti quei componenti di team di startup che non ce l’hanno fatta hanno, in virtù della loro esperienza, un bagaglio di conoscenza molto utile da inserire in nuove imprese. Attenzione!!! Non stiamo parlando di mentor, ma di veri e propri soci che possono entrare a far parte di un team di lavoro e mettere a servizio ciò che hanno imparato durante la loro esperienza.

Il dialogo con le scuole e il valore sociale di un’impresa.

In più Kitzanos dialoga con le scuole perché si rende conto che spesso la formazione che i ragazzi e le ragazze ricevono non è in linea con le esigenze delle imprese. E questo ci porta a parlare del complesso rapporto che c’è tra l’istruzione e le aziende, anche alla luce delle recenti proteste degli studenti e delle studentesse di tutta Italia contro l’alternanza scuola/lavoro.

Infine, Kitzanos non perde di vista il valore sociale di un’impresa, cioè il contributo sociale e conomico che ogni azienda restituisce al territorio in cui risiede in virtù della sua sola presenza. Quindi quella capacità di creare reddito per le persone, che porta poi una comunità a crescere e a svilupparsi. Un argomento poco considerato quando si parla di startup e impresa, ma che, soprattutto in Italia, non può essere sottovalutato.

citazione di Nicola di Kitzanos

Tutti questi argomenti: il ruolo di uno startup studio, il fallimento, il rapporto tra scuola e lavoro e la portata sociale di un’impresa fanno parte del modello ibrido di azienda proposto da Kitzanos. Un modello che mira ad avere un impatto anche sull’ecosistema imprenditoriale italiano.


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Jefferson, l’amaro importante dalla Calabria al tetto del mondo.



L’amaro Jefferson è talmente importante che il suo produttore lo ha scritto nell’etichetta. Se pensi che sia una definizione troppo esagerata devi sapere che questo amaro è stato premiato come liquore più buono del mondo nel 2018, deve il suo nome a uno dei tre americani che dopo un naufragio si sono stabiliti in Calabria e chi lo produce ha impostato la sua azienda secondo i riti e i ritmi contadini. Ma soprattutto, se pensi che definire “importante” questo amaro sia esagerato è perché ancora non lo hai assaggiato.
In questo podcast parliamo con Ivano Trombino di Vecchio Magazzino Doganale, l’ideatore dell’amaro Jefferson.

 


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Perché importante e cosa sono gli amari premium

Se mai ti troverai tra le mani una bottiglia di amaro Jefferson, noterai che sull’etichetta c’è scritto che quello è un amaro “importante”. È il dettaglio che ho notato mentre sorseggiavo questo amaro prodotto in provincia di Cosenza dall’azienda Vecchio Magazzino Doganale. Ivano Trombino, l’ideatore di Jefferson mi spiega che quella scritta serve per posizionare questo amaro una spanna sopra i suoi competitor. Infatti con Jefferson Trombino ha creato – mi racconta – la fascia di amari premium, prodotti cioè hanno un prezzo superiore rispetto agli standard del mercato e che vengono realizzati in maniera diversa rispetto a ciò che si trova nella stessa fascia.

La nascita dell’amaro Jefferson: una storia nella storia

L’amaro Jefferson deve il suo nome all’omonimo marinaio che alla fine del 1800 ha scoperto quel vecchio magazzino gestito da Giocondo Trombino, il nonno del nonno di Ivano, e ha deciso di restare lì insieme ad altri due marinai. La storia, raccontata sul sito ufficiale di Vecchio Magazzino Doganale, sembra essere venuta fuori dalla fantasia di un bravo ufficio marketing ma Ivano mi assicura che è vera. Ma non solo, il modo in cui lui è venuto a conoscenza di questa storia è una storia nella storia.

La citazione di Ivano Trombino di Vecchio Magazzino Doganale, inventore dell'amaro Jefferson

Qualche anno fa, su invito del padre, Ivano si mette alla ricerca del nonno che, partito per gli Stati Uniti, non aveva più fatto ritorno. Dalle sue ricerche, Ivano scopre che il nonno si era fatto una nuova famiglia e quindi Ivano scopre di avere una “nuova” zia. Tra le scoperte c’è anche l’esistenza di questo magazzino che a fine ottocento lavorava come deposito e spaccio per prodotti agricoli; un luogo che nel corso della sua attività aveva ospitato appunti i tre naufraghi americani. Ivano, decide di rimettere in piedi quel Magazzino, lavorando per lo più come fornitore di essenze per aziende liquoristiche finché non inventa la miscela che diventerà poi l’amaro Jefferson.

Una certa idea di impresa e di artigianalità

C’è infine un altro aspetto che questa intervista mette in evidenza. È la concezione che Ivano Trombino ha della sua azienda. Un concetto che ha a che fare con l’essere artigiano che non significa cioè fare tutto in casa. Essere artigiano per Ivano Trombino significa essere un produttore i cui metodi di produzione sono in accordo con la ciclicità della natura e la propria banca degli infusi. Ma non solo. È lui stesso a definirsi più un produttore che un imprenditore perché vuole mantenere vivo – mi dice – il suo rapporto con la terra (che ancora oggi lavora) e i suoi collaboratori.

Una genuinità che, seppur indirettamente, influisce sulla bontà dei prodotti e che li rende, manco a dirlo, importanti.


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Foto di copertina di Francesca Procopio.

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La transizione ecologica passa anche dalla ricerca acustica (e la lana)



Cosa lega la transizione ecologica, i processi di autocostruzione e la ricerca acustica? Se la domanda sembra bizzarra la risposta non è da meno: la lana di pecora. Sì, abbiamo scritto lana di pecora e se ascolterai questo episodio di Start Me Up capirai perché. Il protagonista è Leonardo Lococciolo, project manager di Hackustica.

Hackustica è la startup pugliese che si occupa di progettazione e consulenza acustica, ma anche di ricerca e sviluppo di materiali naturali. Al momento il tutto è finalizzato alla produzione di pannelli fonoassorbenti ma in futuro gli sviluppi potrebbero interessare anche il campo della bio-edilizia. Insieme a Leonardo scopriamo lo stato dell’arte del mercato dei prodotti industriali di origine animale, cercando di intuire il potenziale dietro la sua azienda.

 


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La lana di pecora e la transizione ecologica

Hackustica deve la sua nascita al territorio pugliese. Non sarebbe stato possibile infatti immaginare questo tipo di azienda se non in una regione con una presenza massiccia di aziende agro pastorali e che negli ultimi anni ha visto la nascita di numerose iniziative nel campo della cultura e dello spettacolo. L’intuizione di utilizzare la lana di pecora come elemento centrale per la produzione di pannelli fonoassorbenti da destinare agli spazi per il pubblico spettacolo viene fuori proprio da questo mix (ma nel podcast è raccontato meglio).

La citazione di Leonardo di Hackustica su trasizione ecologica e lana

La lana di pecora, a parità di consumo, presenta una serie di vantaggi rispetto alle alternative attualmente in uso. Naturalmente, visto l’enorme potenziale che questo materiale ha e la quantità presente (non solo in Puglia) è normale che si stia immaginando di utilizzarla anche in settori che non siano strettamente legati al campo dell’insonorizzazione acustica. E l’impatto che questo materiale avrebbe in settori come ad esempio l’edilizia aiuterebbe ad accelerare i processi di transizione ecologica.

Ci sono alcuni fattori che al momento ostacolano la diffusione della lana di pecora. Una sfida che il team di Hackustica sta affrontando anche grazie al supporto del programma di incubazione Ready to impact di a|cube società benefit.

Autocostruzione e l’eredità di Ex-Fadda

Il percorso di Leonardo Lococciolo e Rosario Errico è strettamente legato alla nascita di Ex-Fadda a San Vito dei Normanni. Da questa esperienza i due founder si portano dietro tutta la potenza e i benefici dei cantieri di autocostruzione. È Leonardo a raccontare nel podcast che proprio grazie all’esperienza vissuta a San Vito dei Normanni lui ha compreso quale potesse essere il suo futuro professionale.

Il processo di autocostruzione è stato talmente importante per il team di Hackustica che una delle prime azioni di questa azienda è stata organizzare un cantiere che coinvolgesse professionisti e non per portare a termine il loro primo progetto: la realizzazione dell’architettura acustica di TEX – Il teatro dell’Ex Fadda.

Al momento in cui abbiamo registrato l’intervista gli sviluppi di Hackustica non sono stati ancora ben definiti. Qualunque sarà la strada però siamo certi che il team manterrà fede ai valori raccontati in questo podcast: riuso, economia circolare e processi partecipativi. Elementi che tra le altre cose permettono a Hackustica di legare la transizione ecologica alla ricerca acustica.


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Foto di copertina di Andrea Lightfoot via Unsplash.

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Innovazione culturale fuori dai musei – Speciale BMTA di Paestum



Piccolo episodio bonus realizzato in occasione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum.

Lo scorso 27 novembre ho parteciato come relatore a Storia e Musei al microfono: il fenomeno podcast, un panel curato dal think thank Archeostorie® che si è svolto durante la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum, in Campania.

Durante il panel è stato presentato il libro Branded Podcast curato da Chiara Boracchi di Archeostorie. Oltre a me erano presenti ovviamente gli altri autori che hanno contribuito alla scrittura del libro.

Innovazione culturale fuori dai musei - Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum - primo panelUn momento del panel “Storia e Musei al microfono: il fenomeno podcast”

L’innovazione culturale fuori dai musei

Lo scopo dell’incontro è stato sottolineare il ruolo che il podcast può avere nel racconto del valore di un museo. Partendo dall’esperienza di Start Me Up ho parlato di quei casi in cui sono i privati e le associazioni a proporre innovazione culturale. Inoltre, ho spiegato come un podcast può connettere gli operatori culturali con chi, fuori da queste strutture, sperimenta nuove metodologie di divulgazione.

Questo podcast è la registrazione del mio intervento.


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I progetti citati durante l’intervento alla Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum

Nel corso del mio intervento ho citato numerosi esempi: sono tutti progetti che dimostrano quanto l’innovazione culturale oggi passi non solo dagli enti preposti, ma dalle singole iniziative di gruppi di privati ed associazioni.

Ho parlato di:

Branded Podcast: come “dare voce” a aziende e istituzioni culturali.

Branded Podcast è un libro scritto a più mani. L’intento del libro è mostrare tutti i vantaggi che il podcast offre alla comunicazione culturale. Questa tesi è avvalorata, pagina dopo pagina, accompagnando i lettori e le lettrici tra generi narrativi diversi, illustrando loro le tecniche di promozione di uno show. Il tutto attraverso esempi concreti, numeri, e esperienze dirette.

I singoli contributi contenuti nel libro sono stati scritti da: Sebastiano Paolo Righi, Cinzia Dal Maso, Marco Cappelli, Gaia Passamonti, Andrea W. Castellanza, Rossella Pivanti, Francesco Tassi e me, Fabio Bruno.

Innovazione culturale fuori dai musei - Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum - autoriGli autori di “Branded Podcast” presenti a Paestum

Branded Podcast è il terzo libro di Archeostorie®, think tank di professionisti della comunicazione che studia e sperimenta strategie per una comunicazione dei beni culturali sempre più precisa, coinvolgente e fuori dagli schemi.

Puoi trovare informazioni più dettagliate sul volume in questo articolo.


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Foto di copertina, un momento del convegno.

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Integrare il concetto di sostenibilità nell’azienda familiare: la storia di Giulia Giuffrè.



Quando si parla di sostenibilità all’interno di un’azienda spesso ci si riferisce al rapporto che questa ha con l’ambiente. Questo podcast allarga il concetto di “ambiente”, e include tutto quello che c’è intorno a una azienda. Lo fa raccontando la storia di Giulia Giuffrè, consigliere di amministrazione e ambasciatrice di sostenibilità di Irritec SPA.

Giulia Giuffrè in questi anni ha lavorato per integrare il concetto di sostenibilità nell’azienda familiare. Sta portando avanti questa missione anche come “SDG Pioneer 2021 per la gestione sostenibile dell’acqua” del Global Compact delle Nazioni Unite.

Giulia Giuffrè è inoltre tra le finaliste del Premio Gammadonna 2021 ed è l’ospite di questo terzo podcast di Start Me Up.


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Chi è Giulia Giuffrè

Giulia Giuffrè è ambasciatrice della sostenibilità e dell’imprenditorialità femminile, ha integrato i Sustainable Development Goals (SDGs) nella strategia corporate e nella cultura organizzativa di Irritec, l’azienda famigliare nata nel 1974 a Capo D’Orlando, in provincia di Messina, che dal 2018 fa parte del Global Compact delle Nazioni Unite

Per l’azienda Giulia Giuffrè dirige il dipartimento marketing da lei creato e ha rimodulato l’immagine dell’azienda sul concetto di sostenibilità.

La citazione sulla sostenibilità di Giulia Giuffré di Irritec

Cos’è il Global Compact delle Nazioni Unite

Il Global Compact è un’iniziativa volontaria promossa dalle Nazioni Unite di adesione a un insieme di principi che promuovono i valori della sostenibilità nel lungo periodo attraverso azioni politiche, pratiche aziendali, comportamenti sociali e civili che siano responsabili e tengano conto anche delle future generazioni. È un accordo che viene firmato dai manager delle aziende che decidono di prenderne parte, che si impegnano a contribuire a una nuova fase della globalizzazione caratterizzata da sostenibilità, cooperazione internazionale e partnership in una prospettiva multi-stakeholder.

L’iniziativa tiene conto dei 17 sdgs, cioè gli obiettivi di sviluppo sostenibile identificati dalle Nazioni Unite come strategia “per ottenere un futuro migliore e più sostenibile per tutti” e li applica al mondo di impresa.

Gli obiettivi di sviluppo sostenibile

Gli obiettivi di sviluppo sostenibile mirano ad affrontare un’ampia gamma di questioni relative allo sviluppo economico e sociale, che includono la povertà, la fame, il diritto alla salute e all’istruzione, l’accesso all’acqua e all’energia, il lavoro, la crescita economica inclusiva e sostenibile, il cambiamento climatico e la tutela dell’ambiente, l’urbanizzazione, i modelli di produzione e consumo, l’uguaglianza sociale e di genere, la giustizia e la pace.

Gli obiettivi di sviluppo sostenibile hanno carattere universale e sono fondati sull’integrazione tra le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile (ambientale, sociale ed economico), quale presupposto per eradicare la povertà in tutte le sue forme. Gli obiettivi sono stati condivisi da tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite che hanno ratificato l’Agenda 2030 e si sono così impegnati a declinare nella loro politica gli obiettivi di sviluppo sostenibile previsti (fonte wikipedia).


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Foto di copertina di Luis Tosta via Unsplash.

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