“L’Ultimo Concerto?”: La silenziosa protesta dei live club che fa rumore

“L’Ultimo Concerto?” è l’evento che lo scorso 27 febbraio ha coinvolto oltre 300 live club e numerosi artisti del panorama musicale italiano per manifestare l’assenza della musica e l’importanza dei luoghi di intrattenimento, chiusi da un anno per le restrizioni dovute alla pandemia.

Federico Rasetti - direttore di Keepon Live promotore di ultimo concerto

Federico Rasetti – direttore di Keepon Live

Ispirata all’omonima campagna spagnola “El ultimo concierto?” l’evento ha voluto mettere in luce il difficile momento che stanno vivendo queste realtà, così per una sera i palchi dei live club si sono illuminati per una serie di eventi trasmessi in streaming.

Oltre 100.000 visualizzazioni e un’amara scoperta per gli spettatori: in scena solo il silenzio assordante che comunica, per contrasto, l’urlo di un settore in grave crisi, a cui gli artisti hanno voluto manifestare tutta la loro solidarietà.

Ho intervistato Federico Rasetti, direttore di Keepon, promotore di questo evento insieme ad Assomusica e Arci, per sapere com’è nata l’iniziativa, gli effetti che ha generato e come proseguirà.

Perché nasce L’ultimo concerto?

“L’ultimo concerto?” nasce per mettere un grosso punto interrogativo sul futuro dei live club che sono chiusi da un anno e rischiano di non riaprire più, con conseguenze pesanti sia per il pubblico con la perdita di una socialità sana e dell’aggregazione positiva sui territori, ma anche per tutto l’indotto lavorativo: i professionisti che lavorano nei live club, le produzioni e gli artisti. Dopo un anno non di silenzio, perché ci siamo fatti sentire anche in altri modi, è nata l’esigenza da parte di questi luoghi di fare una grande manifestazione di impatto.

Quanti sono i lavoratori che ruotano intorno al mondo dei live club in Italia?

Difficile fare una stima precisa, se consideriamo gli artisti, i professionisti, i baristi, i social media manager, quindi non soltanto i tecnici che lavorano direttamente allo spettacolo, abbiamo stimato circa sulle 30.000 unità.

Dietro la chiusura di questi luoghi ci sono progetti imprenditoriali fermi da un anno che non hanno mai riaperto, giusto?

Teoricamente avrebbero potuto riaprire con la ripresa autunnale a settembre-ottobre, però sarebbe stato insostenibile economicamente. Di fatto nessuno ha davvero riaperto.

L’evento principale è stato il 27 febbraio, ma l’iniziativa è partita molto prima. Quali sono stati i passi per arrivare all’evento?

In realtà siamo stati abbastanza veloci perché l’idea iniziale è arrivata più o meno a dicembre, forse prima di Natale, e quando abbiamo visto un’iniziativa molto simile, nata in Spagna, che si chiamava “El ultimo concierto?” abbiamo deciso di emularla in Italia. Lì aveva funzionato abbastanza bene, ottenendo anche un riconoscimento da parte del Governo sotto forma di aiuto economico alle sale, e coinvolgendo circa sessanta live club spagnoli. A quel punto ci siamo chiesti come fare a veicolare un messaggio che fosse positivo e ponesse l’attenzione sulla situazione dei live club, e questa poteva essere un’iniziativa alla quale guardare. Tramite la Live DMA, che è un’associazione internazionale della quale facciamo parte e che racchiude tutte le associazioni di live club europee, abbiamo chiesto ai nostri colleghi spagnoli – mantenendo il segreto per non rivelare in italia il senso dell’iniziativa – se potevamo prendere in prestito l’idea, e loro ci hanno dato l’ok. Così abbiamo iniziato organizzare in un solo mese tutto il piano di comunicazione, il coinvolgimento del club, degli artisti e delle agenzie. Il 28 gennaio, un mese prima dell’evento, abbiamo diffuso un poster con tutte le facciate riempite da punti interrogativi che riportavano l’anno di apertura del locale e il 2021 come anno di probabile chiusura.

All’inizio anch’io sono rimasto spiazzato dal post “L’ultimo concerto?”, pubblicato dal Retronouveau, un locale della mia città. Poi ho capito che il gioco era chiedere ai propri fan quale fosse stato l’ultimo concerto a cui avessero assistito.

Sono state le persone a interpretarlo così, in realtà noi non volevamo chiedere quale fosse stato l’ultimo concerto, ma porre la domanda: quale sarà l’ultimo concerto, quello che avete visto l’anno scorso o quello che ci sarà nel 2021? Perché se continua così non potremo farne altri. Questa cosa ha suscitato interesse e dato forza alla campagna di comunicazione dell’iniziativa.

Il 27 febbraio si è svolto l’evento completo in diretta su facebook. Tutti si aspettavano un’esibizione dal vivo e invece è stata trasmessa una serie di video con la presenza di numerosi artisti. Che cosa abbiamo iniziato a vedere quel giorno?

Il 27 febbraio, accedendo al sito, si aveva la possibilità di scegliere il live club e l’artista di riferimento da vedere. In realtà, non abbiamo mai detto che ci sarebbero stati dei concerti. Abbiamo sempre parlato di eventi e usato questa sottile linea di comunicazione. La stampa stessa ci era cascata tutta, dai grossi network nazionali fino alle webzine indipendenti. Collegandosi si poteva assistere alla preparazione di un live club, si capiva che non era in diretta perché erano dei video montati che simulavano l’inizio di un live, solo che poi non avveniva. Al momento di iniziare il concerto, l’artista rimaneva muto, o faceva partire una nota di chitarra e si fermava. Oppure faceva una dichiarazione o ancora restava completamente fermo davanti al palco. Questo ha provocato uno shock a molte persone. È proprio questa la sensazione che provano ormai da un anno gli operatori del settore, molti di loro stanno addirittura cambiando lavoro, ed è in atto qualcosa di molto grave, per certi versi irrecuperabile. Si sta perdendo capitale umano oltre che capitale d’impresa, e il senso di angoscia è veramente molto forte. Artisti e club volevano trasmettere questo grave pericolo, in primis alle istituzioni.

La cosa che mi ha stupito è che in tanti hanno criticato questa iniziativa. Molti hanno ritenuto che non fosse necessario fare una cosa del genere perché tutti sappiamo cosa significa stare senza concerti. Sono arrivate anche a te queste critiche? Come hai reagito?

Le critiche ci sono arrivate e un po’ ce lo aspettavamo. Noi avevamo paura soprattutto della reazione della stampa perché il nostro target erano le istituzioni. Invece gli organi di informazione hanno capito, esaltando moltissimo l’iniziativa sia per l’efficacia che per la creatività. L’evento è stato apprezzato soprattutto per l’educazione con la quale si è svolto, perché non era facile organizzare un’iniziativa che fosse di rottura senza infrangere la legge, come, invece, hanno fatto gli esercenti pubblici rimanendo aperti o facendo delle manifestazioni di piazza che in questo periodo sono rischiose e possono favorire i contagi.

Probabilmente qualcuno ha sacrificato una serata in cui avrebbe potuto vedere un concerto per un’oretta e mezza, gratuitamente, e magari è arrabbiato perché non si è divertito. Chi ha reagito così non ha compreso il messaggio. Molti hanno detto di sapere com’è la situazione, ma in realtà non è stato facile realizzare questo evento perché i costi di produzione sarebbero stati impossibili da sostenere con l’attuale emergenza economica nel nostro settore. Mi hanno scritto anche le multinazionali, qualche giorno prima, chiedendomi cosa stessimo facendo e prevedendo una figuraccia. Ci dicevano che sarebbe stato impossibile gestire 130 streaming per la nostra piattaforma. Chiaramente un evento musicale dal vivo implica un coinvolgimento diverso, ma è impossibile capire fino in fondo quanto lavoro, fatica e risorse ci siano dietro. Nessuno si permetterebbe di dire che sa come funziona la fisica quantistica, in realtà la musica ha dei meccanismi e delle tipicità che la rendono altrettanto sconosciuta al pubblico. Però questo ha reso evidente che gli artisti con un vasto seguito, come per esempio Ligabue, muovono molte persone. Infatti non abbiamo potuto annunciarlo per problemi di ordine pubblico perché avremmo rischiato che arrivassero tantissime persone a campeggiare davanti al box solo per vederlo. Anche i Subsonica sono stati criticati nell’esporsi facendo una cosa del genere. Mentre tra il pubblico dei piccoli circoli, che è molto più vicino alla realtà del club, quasi nessuno si è lamentato.

In realtà anch’io sono rimasto spiazzato quando ho visto che l’evento era gratuito, poi mi sono accorto che si trattava di brevi video e ne ho guardati un po’…

Alcuni di questi video sono molto ben fatti e commoventi. Questa è stata una protesta rock e, da quando è nato, il rock non ha mai accontentato tutti. Il senso di ribellione ha sempre tracciato dei solchi, un prima e un dopo, ed è quello che speriamo faccia questa manifestazione. In realtà anche le proteste sono servite perché hanno fatto crescere l’evento, generando attesa e dibattito. Infatti i risultati sono arrivati perché ha richiamato l’attenzione sulla situazione dei live club.

Si è parlato tanto del teatro e del cinema ma qualche esponente politico si è espresso sul mondo della musica prima dell’evento del 27 febbraio?

No, per questo motivo le associazioni che rappresentano i live club e che hanno organizzato questo evento, già da prima della pandemia cercavano un contatto con le istituzioni per far sì che queste realtà venissero tutelate. I locali di musica dal vivo non esistono per l’ordinamento giuridico, negli anni, a forza di insistere, c’è stato qualche accenno a questi luoghi e nel 2019 si stava arrivando anche ad un riconoscimento formale. Poi cadde il Governo e, come sempre succede, si dovette ricominciare da capo. L’esposizione dei politici o delle istituzioni in generale è stata sempre molto bassa, mentre dopo “L’ultimo concerto?” uno dei risultati ottenuti è che tre giorni dopo già la parola live club appariva in tre decreti. L’evento è servito a far capire che questi luoghi impattano su milioni di persone in Italia, prima, però, erano molto poche le voci a favore.

Oltre alla protesta quali sono le proposte avanzate per risolvere i problemi del settore?

Le proposte ricadono in tre macro ambiti: il primo che, forse, è il più importante e in futuro aiuterebbe ogni altra attività è quello del riconoscimento per i live club, cioè riconoscere realmente il valore sociale e culturale che hanno questi spazi, ormai al pari di cinema e teatri. L’altro è un riconoscimento formale attraverso la creazione di un albo, per far sì che lo Stato riconosca e tuteli anche economicamente i live club con delle piccole erogazioni, cosicché possano continuare a svolgere il loro lavoro, come già succede per i cinema che distribuiscono film indipendenti. Quello è un ottimo modello a cui guardare perché i club non fanno solo intrattenimento, ma molto spesso scommettono sulle giovani band, creano contenuti artistici e culturali e quindi, secondo noi, vanno sostenuti. Gli altri due grossi macro ambiti sono quello della ripartenza, quindi del sostegno alle arene estive perché si possano fare in modo sostenibile, ma con protocolli di riapertura anch’essi insostenibili, sicuramente non si può riaprire con il 25 % di capienza. E il terzo e ultimo, ma forse il più importante, la riscrittura di una legge dello spettacolo, che è ormai vecchia, con l’abolizione dell’ ISI, una tassa sull’intrattenimento, fino all’equiparazione delle capienze tra spettacoli con il loro aumento a 2.0 e l’abbassamento dell’iva al 10 % con l’equiparazione di questa, ad esempio, sui biglietti per tre differenti spettacoli.

Oltre alle varie agevolazioni di tipo fiscale, leggo anche la volontà di essere parte attiva di un cambiamento con proposte che vedono la rigenerazione urbana e un ruolo anche sociale dei club che molto spesso sono situati in zone della città in cui non c’è niente, in cui la musica gioca un ruolo fondamentale proprio perché dà alle persone la possibilità di incontrarsi e crescere anche dal punto di vista culturale.

E’ proprio così. Peraltro questa è una delle linee che più mi piace dei nostri locali e che sento più vicina nella narrativa che facciamo, ed è quella di favorire la crescita culturale e sociale dei territori. Magari non si parla proprio di rigenerazione urbana perché è una parola con una connotazione specifica. Però i live club aiutano sicuramente i territori e sono importanti nelle periferie, dove a volte sono gli unici posti, in zone afflitte dalla povertà sociale e culturale, che danno un’alternativa rispetto al solito pub o alla discoteca. Inoltre garantiscono la sicurezza: un quartiere dove c’è un locale di musica dal vivo, che fa molto spesso anche altre attività, per esempio associazionistiche, è un quartiere dove le persone possono aggregarsi in sicurezza e il territorio è presidiato anche in orari in cui sarebbe senza controllo. Certo c’è la presenza delle forze dell’ordine e questi luoghi non si vogliono sostituire ad esse, quindi possiamo dire che sarebbe bene avere più telecaster e meno telecamere.

Quanto è diffusa la cultura del live club in Italia? Ci sono tanti club in tutte le parti d’italia oppure è possibile distinguere delle zone? Ci puoi fornire un quadro…

La situazione che emerge è molto diversa. Ad esempio, al sud i live club sono molto meno frequenti, anche la cultura di partecipazione a questi luoghi, ahimè, sta calando, vuoi per la concorrenza del divano e di Netflix che spinge le persone ad uscire sempre meno, ma anche per via dei social network e per ragioni economiche. Di queste realtà, ad esempio, al nord ce ne sono di più, sono più grandi e impattano anche le politiche sociali e culturali delle regioni. In Emilia Romagna avevamo pubblicato una cartina con i live club di tutta la nazione, ed è evidente che proprio qui, oltre ad esserci un quarto dei club di tutta Italia, sono veramente ben distribuiti. In Lombardia, invece, si trovano sostanzialmente a Milano, in Piemonte a Torino, le grosse città la fanno da padrone, mentre in Emilia Romagna dove, da tre anni, c’è una legge sulla musica che tutela questi luoghi e un sistema storico di associazionismo più diffuso, i club, anche se piccoli, sono sempre stati più frequentati. Anche i piccoli paesini hanno il loro circolo dove si fa musica dal vivo.

Quindi secondo te non è qualcosa che è legato soltanto al discorso economico? C’entra anche la cultura e la voglia di usufruire di questo tipo di spettacoli…

Certo, al sud si trascorre generalmente meno tempo in uno spazio chiuso. Ci sono davvero tante concause in realtà.

Che cosa si intende per Live Club?

Guarda questa è una bella domanda. Noi abbiamo fatto un decalogo, che abbiamo consegnato ai ministeri per identificare i live club. Secondo la definizione sono quegli spazi che hanno come ragione economica e/o identitaria la musica dal vivo come prevalente. Devono avere, inoltre, una programmazione che abbia almeno il 50 % di musica dal vivo, di cui il 60-70 % di musica dal vivo originale. Cover e dj set si possono fare, anche perché il dj set performativo è a tutti gli effetti una performance. Devono avere un impianto audio residente, anche a noleggio o in comodato d’uso, e una zona palco adibita e stabile per la musica.

Voi come Keepon raggruppate buona parte dei live club in Italia permettendo loro di fare rete e, in un periodo del genere, anche di far valere i diritti di chi gestisce questi posti, giusto?

Proprio così. Noi li tuteliamo e difendiamo i loro interessi. Il nostro dovere è proprio quello di far sì che riescano a fare al meglio il loro lavoro e accrescano il loro pubblico. Lo facciamo soprattutto con le istituzioni, ma anche tramite attività di networking. Abbiamo organizzato un evento che una volta l’anno li riunisce tutti, è una sorta di convegno medico, ma un po’ più punk. E’ un’iniziativa in cui, ad esempio, un club del Piemonte può confrontarsi con un club siciliano su problematiche, desideri e obiettivi comuni.

Il testo è la trascrizione adattata dell’intervista andata in onda su radioantidoto.org.

Per seguire le attività de “L’Ultimo Concerto?” visita il sito ufficiale dell’iniziativa e la pagina facebook e l’account su Instagram.

Il teatro a domicilio: l’esperienza del Delivery Theater di Carullo Minasi

Carullo Minasi è una compagnia teatrale che durante il periodo di Natale 2020 ha portato in giro per le strade della propria città il Delivery Theater. Il progetto declina la forma tipica di consegna (il delivery, appunto) applicata però all’arte teatrale (Theater).

L’intento è presto detto: dimostrare l’essenzialità del teatro e di ogni forma d’arte, nonostante le restrizioni dovute alle norme del contenimento della pandemia che ancora oggi tengono chiusi i luoghi della cultura.

Ippolito Chiarello, il barbonaggio e il menù teatrale.

Il duo artistico siciliano ha risposto all’appello lanciato da Ippolito Chiarello che i primi di dicembre aveva pubblicato sul proprio sito un vademecum per proporre quello che lui ha definito barbonaggio teatrale – delivery. Sono indicazioni che permettono a operatori dello spettacolo di “consegnare la propria merce” anche durante il periodo della pandemia.

Ho incontrato Cristiana Minasi (che insieme a Giuseppe Minasi ha fondato l’omonima compagnia ormai dieci anni fa) e mi sono fatto raccontare qualcosa di più su questa esperienza di Delivery Theater.

Ciao Cristiana, a me la cosa che è rimasta molto impressa, è stato il fatto che non si trattava semplicemente di andare in strada, almeno nel vostro caso. Voi, in realtà, avete strutturato il tutto come un vero e proprio menù. Ce lo puoi descrivere?

Per quanto riguarda il menù, si tratta di una proposta di Ippolito che per semplificare il gioco delle richieste, ci ha invitati a costruire un vero e proprio menù teatrale. Così noi abbiamo preso ciò che ci riguarda più da vicino, cioè i testi con cui siamo soliti operare. Abbiamo spezzettato i nostri spettacoli, preso le parti più salienti, e giocato sull’idea di poter servire una pietanza come se fosse alla carta.

Ciononostante, non nascondo che poi, durante gli eventi, chiedevano a noi quale fosse il menù completo. Quello che ci ha sorpreso di più è stato che molti bimbi hanno voluto vedere più volte lo spettacolo. Quindi abbiamo dovuto anche andare ben oltre quelle che erano le cose che avevamo preparato, ed è stato molto affascinante. Anche nel momento in cui ci siamo relazionati con Laura Benvenga, che è la violoncellista e che a sua volta ha preparato un menù teatrale musicale. Era una scusa, un alibi per cominciare da qualcosa. L’obiettivo era comunque avere un oggetto di possibile richiesta. Ma in realtà, ripeto, poi era più un gioco, perché alla resa dei conti la gente chiedeva a noi un consiglio ed è stato ancora più bello.

Come è stato, quindi, andare fuori? E dico fuori nel vero senso della parola perché alcuni spettacoli si sono svolti proprio per strada, altri invece li avete fatti sui balconi. I vostri spettacoli si prestano a questo tipo di rappresentazione, oppure avete adottato qualche piccolo accorgimento?

Io vengo da un’idea di teatro di strada e ho un grande fascino nei confronti dell’arte del clown. Anche per questo motivo tutti i nostri spettacoli, nella loro forma ufficiale, cioè pensata per essere riprodotta in teatro, sottendono lo spaccarsi della quarta parete. Lo spettatore viene sempre coinvolto, magari in maniera inaspettata. Quindi non è stato tanto difficile portarli fuori perché se in teatro coinvolgiamo il pubblico attraverso l’accensione delle luci in platea o comunque con dei dichiarati segni argomentativi, qui era proprio il fatto in sé.

Delivery Theater di Carullo Minasi - pubblico Vittorio Emanuele

Il pubblico come direttore artistico di ogni rappresentazione

La cosa più importante, secondo me, più determinante, è stato il rischio che deve caratterizzare sempre l’arte attoriale. Nel senso che spesso ritrovarsi in una forma prestabilita preconfezionata è sicuramente un fatto di certezza, che però mette in serio pericolo l’efficacia degli spettacoli, perché nella ripetizione è difficile trovare un’anima; dopo dieci anni di “Due passi sono” [spettacolo con cui la compagnia ha debuttato nel 2011, ndr], è chiaro che farlo all’aperto ti restituisce una sensazione di verità e vivacità assolutamente esclusiva, innovativa. Quello che più ci ha colpito è stato che coloro che chiedevano uno spettacolo, diventavano i direttori artistici dello spazio, della location; sceglievano loro, ipotizzavano loro il contesto e questo è il regalo più grande. Certo, noi poi ci adattavamo, però è chiaro che c’era una forma di coinvolgimento nella richiesta specifica da parte dello spettatore, ma non soltanto dell’oggetto, di ciò che sarebbe stato fatto vedere, ma anche dello spazio. Ti propongono questo spazio, con questa forma, quindi in parte diventano registi, con molta cautela e molto timore.

In realtà veniva affidata alla collettività la scelta della definizione dello spazio. Ci è capitato, per esempio, di realizzarlo alla Passeggiata a mare di Messina (spazio pubblico vicino al mare della città, ndr); si sono avvicinati moltissimi ragazzi incuriositi con le biciclette, proprio costruendo intorno a noi un vero e proprio ferro di cavallo. Quando in realtà lo spettacolo era stato realizzato per un regalo di compleanno di una ragazza commissionato dal marito. È stato veramente appagante.

Quante date avete fatto?

Diciotto/diciannove, ma ce ne sono molte altre ancora da fare. Tutto si è interrotto a causa di delle restrizioni messe in atto.

Sono sicuro che avrete tantissimi aneddoti legati ad ogni rappresentazione…

Ce ne sono stati veramente tantissimi, alcuni estremamente commoventi. Noi siamo stati invitati in luoghi speciali, come per esempio siamo stati ospitati a casa di una persona che ci ha dato la disponibilità dell’intero appartamento in una delle vie centrali della città. Con noi c’erano due musicisti: un fisarmonicista e una persona che suonava sia il violino che il pianoforte. Abbiamo aperto tutte le finestre e quindi inevitabilmente ha partecipato tutta la strada, assistendo allo spettacolo dai balconi. Ad un certo punto è passata una pattuglia della Guardia di Finanza che, vedendo tutta questa gente affacciata dai balconi è rimasta ferma. È stato veramente un momento straordinario perché c’è stato un momento di ghiaccio. Ho detto: “oddio, ora come facciamo a spiegarlo alla Guardia di Finanza?” E’ stato proprio filmico.

Oppure quando, nei cortili condominiali, le signore si affacciavano senza minimamente sapere ciò che stavano guardando, chiedendo e discutendo intorno alle “Operette morali” di Leopardi (a cui alcuni spettacoli della compagnia si ispirano, ndr). Oppure un bambino senegalese che è fuoriuscito da una finestra, proprio rotolando e venendo a vedere lo spettacolo che era stato realizzato in un condominio. E ancora un compleanno, all’interno di un condominio, nella parte interna delle scale, dove le persone venivano a vederci: estremamente bello.

Delivery Theater di Carullo Minasi al balcone

Le case con i cortili interni e con tanti ballatoi si prestano molto a delle rappresentazioni teatrali. E voi li avete sfruttati, almeno in alcuni casi…

Io ho fatto spesso riferimento al “Globe Theater” di Shakespeare perché l’immagine che ancora conservo è proprio quella delle balconate dove ci si affacciava e quindi c’era una partecipazione attiva e dove gli attori stessi salgono sul balcone. Il mio sogno, ma già da prima della pandemia, è proprio quello di realizzare delle scene sociali dove, con tavoli di legno, si connettono tutti i balconi tra di loro e ciascuno prepara la propria pietanza e la condivide. Questo era proprio il progetto di teatro condominiale che ho sempre sognato di realizzare a Messina, perché effettivamente la condivisione di pietanze cucinate dalle persone, anche nella voglia di condividere l’idea di diverse culture, mi sembra una cosa straordinaria.

Nonostante il Delivery Theatre si sia svolto solo a Messina, ci sono stati degli effetti che vanno al di là dei confini cittadini…

Una persona a noi molto legata, che è Dacia Maraini, ci ha invitato al suo festival Teatro sull’acqua, e ci ha seguito tramite il suo curatore artistico che è Luca Petruzzelli. Hanno deciso di riportarci ad Arona e quello che più mi ha colpito è che lui è alla ricerca di una relazione con le case di cura per anziani. Quindi, vorrebbe metterci proprio nei cortili o comunque farci fare un intervento sul battello, perché la gente ci guardi da una balconata rivolta verso il lago di Garda (il luogo dove si svolge il festival, ndr).

Uscire dal teatro per tornare ad esso, portandosi dietro nuovo pubblico.

E poi ci sono tutta una serie di ipotesi che sono la rappresentazione di una forma di teatro diffuso, che intende fuoriuscire dal teatro perché si possa tornare al teatro con una partecipazione maggiore. Inclusa anche quella di tutte le persone che in genere non sono avvezze a questo genere di intrattenimento e che possono a loro volta ritrovare nel teatro una necessità che sconoscono. Questo è il nostro obiettivo, soprattutto, a Messina: raggiungere le zone periferiche.

Se si riuscisse ad allargare sempre di più questo genere di linguaggio non sarebbe male.

Sì, perché spesso il teatro ancora risente di una visione estremamente borghese ed è un peccato. Perché quando i ragazzi e le famiglie riescono a ritrovare nel teatro quella forza di riconoscere nell’altro una parte di sé, si ritorna a quella che è la funzione originaria di questa forma di spettacolo. Allora veramente si comincia a ricostruire il tessuto sociale e politico di una possibile comunità.

Quindi il Delivery Theater nasce come una forma di protesta e in un periodo di emergenza. Tu pensi che ci sarà comunque la possibilità di poterlo riproporre così come lo avete pensato anche passata questa fase?

Sì, assolutamente. Io sono fortemente preoccupata per l’apertura dei teatri, perché c’è già una grande fame da parte di chi vuole ritornare ad attivarsi. Sono bruciati almeno i primi due anni delle prossime stagioni. Questo è un meccanismo che non dovevamo consentire. Si poteva utilizzare la pandemia, così com’era giusto fare su tutti i fronti, anche a livello sociale, per comprendere tutto ciò che è stato slatentizzato come problema inevitabile, indiscutibile. Invece si ritornerà non come prima, peggio di prima.

Delivery Theater di Carullo Minasi - Galleria Vittorio Emanuele

Il Delivery Theater come nuova forma di spettacolo fuori dalla logica dei bandi

Per noi il Delivery Theater non è una sorta di protesta. Non abbiamo da protestare, per me si tratta di un’occasione per tornare all’originarietà del teatro e fungere da attori e autori di un rinnovamento sociale che è fatto di una partecipazione, di una cittadinanza attiva che non è stata finora riconosciuta.

Penso al sistema dei bandi: tutto quello che viene proposto spesso diventa una fiction attraverso la quale si finge. Poi tutto viene edificato in funzione di un obiettivo che prescinde dalla reale necessità del contesto in cui si opera. Avere l’opportunità di andare per emergenze in luoghi inaspettati anche per noi prescinde da ogni tipo di progettualità da bando.

Però quando dici questa cosa la dici nella misura in cui anche in tempi normali in realtà non è che si stava tanto bene?

No, si stava malissimo. Io sono molto preoccupata per un sistema che già era malconcio a livello di produttività. Per esempio, nel nostro caso, due spettacoli molto importanti e molto ben riusciti non hanno avuto l’occasione di circuitare proprio perché vige la regola, un po’ a livello di consumo e anche di finanziamenti, di produrre uno spettacolo sempre nuovo. Gli eventi scenici diventano dei prodotti ed è una cosa gravissima, perché uno spettacolo sottende un processo creativo importante, la necessità di una relazione con il pubblico. Tutto questo è molto dannoso per gli attori, per gli autori e i registi, ma anche per uno sperpero stupido di soldi. Per esempio è il caso di una produzione del Teatro Stabile di Catania a cui noi tenevamo moltissimo. Questa produzione non riusciva a girare per tutta una serie di giochi inevitabili di scambi e determinazioni pregresse. Ma non è colpa di nessuno, è colpa di un sistema che implode su se stesso e uccide appunto il meccanismo, ma questo lo vediamo su tutti i fronti.

Toglimi una curiosità, il mondo del teatro è un po’ come nel resto degli altri ambiti che si è sempre “giovani”? Voi nonostante dieci anni di esperienza siete ancora una compagnia “giovane”?

Purtroppo sì, però è anche lo scarto a far data: dal compimento del tuo trentacinquesimo anno di età, non puoi più rientrare in determinati bandi che da ministero sottendono appunto un aiuto e quindi diventa proprio una fase di mezzo estremamente pericolosa. Perché vent’anni fa, quando Emma Dante vinse il famoso premio Scenario, nel 2001, erano i produttori ad avvicinarsi. Quando lo abbiamo vinto noi nel 2011, invece, abbiamo dovuto vincere dieci premi per produrre i nostri spettacoli, dovendo sempre dimostrare qualcosa. Non è più l’artista ad essere ricercato dall’istituzione, ma è l’artista che deve inseguire l’istituzione, il bando. Diventa un meccanismo molto pericoloso perché si perdono molti artisti che non ce la fanno più, non reggono perché smettono di essere artisti. Un po’ come nel nostro caso si diventa manager di una piccola impresa che comunque fa fatica anche ad essere riconosciuta a livello di personalità giuridica all’interno del contesto attuale. Si diventa imprese sociali, associazioni di promozione sociale, è tutto sempre un ibrido, però non ci sono più le vecchie compagnie di giro.

Voi parlavate di teatro itinerante già nel 2014 e quindi comunque di fatto ve la portate dietro un po’ questa cifra di voler portare in giro i vostri spettacoli.

Sicuramente come piccolissima coppia artistica, piccolissima anche nella struttura, perché comunque viaggiavamo come fossimo una piccola famiglia di giro. Considera che nel momento in cui io sono rimasta incinta, veniva mia madre con me in tournée si portava dietro anche il bambino.

Un’altra cosa che mi ha molto colpito è stata la definizione che l’Associazione Nazionale Critici di Teatro vi ha dato: “l’ultima piccola rivoluzione delle scene teatrali italiane”. Cosa avete fatto di così rivoluzionario?

Di rivoluzionario c’è un po’ un gioco di parole dettato da questo nostro spettacolo che comprende due operette morali di Leopardi che s’intitola “De revolutionibus – Sulla miseria del genere umano”. Leopardi è straordinariamente ironico. Una cosa che non hanno mai insegnato a scuola! Era un genio dell’ironia e della provocazione. Io amo moltissimo recitare Leopardi in un modo molto semplice, come se fossimo al bar. Ed è straordinario perché lui gioca sul fatto, in queste due operette che noi abbiamo preso in considerazione, che l’uomo non fa altro che ribaltare la realtà dei fatti, stando in una finzione ridicola e pensando di sottomettere il sole. Per esempio, nell’operetta del Copernico, finché il sole è stufo di girare intorno alla terra, si rivolge all’ora prima e dice: “Basta, non ne posso più! Che gli uomini capiscano quello che sono.” “E quindi cosa sono? Nulla”. Ecco che allora interviene Copernico con tutto quello che comporteranno le sue torie. E questo è un primo aspetto. Poi c’è la seconda operetta che è “Galantuomo e Mondo”: lì dove la civiltà dice che bisogna fare tutto il contrario, quindi lei va al contrario per ottenere quello che è giusto ottenere.

È uno spirito critico, il nostro. La piccola rivoluzione è anche un po’ un riferimento a questa provocazione sul ribaltamento di quelle che sono le visioni consuetudinarie.

Delivery Theater di Carullo Minasi al  Vittorio Emanuele - foto laterale

Ho notato che hai fatto riferimento alla trilogia sul limite, quella del teatro itinerante del 2014. Quali sono i tre spettacoli che compongono questa trilogia?

In realtà sono spettacoli che sono stati realizzati a prescindere: “Due passi sono”, “T/Empio, critica della ragion giusta” e “Conferenza tragicheffimera, sui concetti ingannevoli dell’arte”. Sono tre spettacoli che sono nati uno dopo l’altro, ci siamo resi conto nell’elaborazione degli stessi che c’è un tema ricorrente: il limite. Partendo poi dal brocardo kantoriano secondo cui è dal limite che viene fuori l’opera d’arte, ecco che quando ci hanno chiesto al Teatro di Messina di fare una proposta, io ho realizzato il mio sogno: quello di portare il teatro in una visione diffusa. Abbiamo superato i limiti istituzionali, abbiamo permesso al pubblico di salire sul palco per “Due passi sono”, dando proprio una visione di superamento di quella soglia e cercando di individuare un progetto che garantisse allo spettatore un superamento da parte dello stesso.

C’è stata anche la partecipazione di Mosè Previti, che è uno storico dell’arte, e di Pier Paolo Zampieri, un sociologo urbano; questo ci ha permesso di spiegare ogni edificio in cui ci si trovava ad operare. Nel primo caso era il Teatro Vittorio Emanuele, nel secondo caso, in “T/Empio, critica della ragion giusta”, che è un dialogo di Platone, si lavorava sul tribunale di Messina, che è il mio sogno, anche perché sono una laureata in legge e quindi l’obiettivo di insinuarmi anche a livello dialogico sui temi della giustizia è sempre stato un sogno.

E poi infine “Conferenza tragicheffimera” che parla della situazione dell’artista, lo abbiamo fatto all’ex Mandalari, il centro diurno di salute mentale, il Camelot. E lì io mi ritrovavo con queste ali giganti tra le opere d’arte realizzate da Chiarenza, che è un artista ed è stato uno degli utenti del centro di salute mentale tanti anni fa.

E lì è intervenuta una visione, come definirebbe Zampieri, psico-magica e logistica. Abbiamo ragionato anche sul perché un centro di salute mentale, ex ospedale psichiatrico, che si trova ai margini della città, venisse esplorato dagli abbonati. È stato bellissimo, veramente.

Loro, cioè gli abbonati, come l’hanno presa?

È stato un divertimento straordinario. Sono stati tutti seduti a terra, sulle sedie, e c’era un alto livello di condivisione, di partecipazione diffusa, nel senso che c’erano sia gli utenti che gli abbonati. Era meraviglioso, su questo poi abbiamo elaborato il nostro seguente spettacolo che era “Delirio bizzarro”, dove si lavora proprio su questa soglia un po’ equivoca tra normalità e follia.

La giurisprudenza come “arte sociale”.

Veniamo alla vostra formazione: tu sei solo laureata in legge o hai anche sostenuto l’esame di avvocato?

Sono anche avvocato, ma non sono iscritto all’ordine; ho fatto l’esame per far piacere a mia madre. Mentre Giuseppe è un teatrante, infatti è un disastro perché vuole proprio fare quello: gli spettacoli, andare in giro… Io invece mi sto buttando più sulla progettazione sociale, lui non ce la fa a non andare tournée, per lui la sua meraviglia è girare il mondo.

Da una parte la giurisprudenza e poi naturalmente il teatro a cui si aggiunge questa vocazione sociale. Nonostante questi siano ambiti molto diversi fra di loro c’è, secondo te, un filo che li lega?

Assolutamente sì. Anche perché ora mi sto buttando sul prospetto educativo legato alle situazioni di difficoltà. Ritengo che solo una visione a livello contemporaneo, che non ha a che fare con la complessità, non è nella condizione di potere agire coerentemente. Non credo nella specializzazione esclusiva di un piccolo elemento, almeno per la mia passione, anche indecisione, follia personale. Sento, in questa trasversalità, di avere trovato probabilmente tutta una serie di particolarità che caratterizzano anche la poetica di cui ci facciamo portavoce all’interno dei nostri spettacoli. Chiaramente sono spettacoli che riguardano appunto i temi della giustizia o comunque i temi della differenza, intesa come potenzialità, come specialità.

Chiaro che io, come laureata in legge, come giurista, ho una vocazione più teorica. Nella mia tesi di laurea “Il soggetto alla ribalta”, io mi domandavo come potesse stare comodo il soggetto inteso come persona unica all’interno di una cosa così generale ed astratta. Lì parlavo della flessibilità e della potenzialità di un costrutto che sembra uguale per tutti, dove però deve intervenire necessariamente quale mediatore il giudice, quindi un vero e proprio interprete tra le parti che svolge la stessa funzione del regista. Il fotografo è un mediatore della parte sociale. Quindi da lì io ho capito che c’era tutta una questione legata al tema dell’improvvisazione, della cognizione concreta, dell’aspetto sociale.

Mi sto anche specializzando su delle malattie rare, quindi mi interessa molto il mondo della esclusività, anche perché spesso i progetti sociali sono legati a persone che hanno grosse difficoltà. Però bisogna conoscere le difficoltà, bisogna essere dentro. Per me è una totale coincidenza, che poi se uno la vede da un punto di vista teorico la giurisprudenza in realtà è un’arte sociale. Poi ho studiato anche teatro con Anatolij Vasiliev, che è un maestro russo. Ho avuto anche l’occasione di fare un master in criminologia infantile legato ai temi dell’infanzia e della famiglia. Sono tutta una serie di cose che poi si connettono nei progetti che portiamo avanti.

Delivery Theater - dentro il salotto

Come lo immagini il teatro quando finirà la pandemia? Secondo te ci possiamo aspettare qualcosa di nuovo e se sì, in che cosa sarà nuovo?

Beh, io posso parlare di me, nel senso che sono molto disillusa nei confronti del sistema. Ho deciso che non voglio più cadere nella trappola di ciò che in realtà è il sistema stesso, senza che tu te ne accorga, ti fa fare. Come è stato poi per “Due passi sono”, quando ce l’abbiamo fatta, nonostante sembrasse assolutamente impossibile, perché Giuseppe stava veramente molto male. Lui voleva uscire fuori dall’ospedale, lo voleva fortemente, così abbiamo costruito una realtà artistica dove tutto è diventato metafora del nostro progetto di vita. Uscire fuori dall’ospedale, poi concretamente, è diventato uscire fuori da Messina, a girare il mondo con il nostro sogno. Quindi io posso parlare per me, devo imparare a non farmi veramente schiacciare dal sistema, perché un pochino succede; per me l’innovazione sta nel ritorno alle origini, tutto questo delirio generale in cui si tenta di fingere di essere diversi e poi si è tutti in un percorso evidentemente uguale. Questo è pericolosissimo perché si schiacciano le esclusività e io voglio tornare alla profondità e alla necessarietà del teatro. Sono anche disposta a rinunciare alla mia esclusiva parte di attrice, posso pure rinunciare al teatro per farlo veramente. Cioè, nel senso che posso pure decidere di dire va bene, non vado più in tourneé, purché lo si faccia veramente con la funzione che il teatro merita, perché spesso i teatranti si ritrovano a fare delle cose che sono contro il teatro medesimo. Siamo tutti parte coinvolta, come parte attiva di una distruzione generale.

Che intendi?

Sono dei meccanismi imprenditoriali che spesso fanno precipitare, ma è colpa di un sistema che ti fa fugare all’interno di una visione manageriale, che probabilmente ha fatto anche la nostra fortuna, però non deve diventare esclusiva, nel senso che poi l’ultimo problema diventa l’aspetto artistico. Quindi proprio la cosa importante è vincere il progetto, ottenere la produzione e poi le produzioni muoiono lì dove nascono, e tutto si perde. Non c’è più una gestazione, diventa solo un continuo rincorrere un sistema che sta schiacciando la politica della poetica. Io credo nella politica della poetica, così la poetica non si può sviluppare. Non è il tempo, è proprio schiacciata.

Il teatro come attesa

Proprio ieri c’è stato il primo incontro che ho fatto di questa residenza digitale, assolutamente innovativa e molto interessante, che mette due generazioni a confronto: le persone anziane e giovani tra i 14 e i 18 anni. Le persone anziane riuscivano molto bene a vedere il loro futuro come una funzione, una missione. I ragazzi dicevano no, io non non riesco a vedere niente, come se fosse il buio totale. Quindi il paradosso che mi è stato restituito ieri dalle persone anziane che hanno vissuto una vera vita è che non c’è tempo da perdere dietro la dispersione, perché comunque c’è da vivere, da fare. Io pensavo che fossero i ragazzi a dare agli anziani questa possibilità, oggi mi rendo conto che sono gli anziani a dare speranza ai giovani.

Questa cosa che state portando avanti e che è iniziata ieri, è una residenza d’artista digitale dove di fatto non c’è la presenza fisica. Come ti sei preparata e quali sono le prime impressioni?

Mi sono preparata sulla falsa riga di un laboratorio che, in fase pandemica a marzo scorso, avevo dovuto già affrontare e mi sono resa conto che in realtà ci siamo ritrovati a fare una cosa che altrimenti non si sarebbe dovuta fare, anche a prescindere dalla pandemia, sarebbe stato molto complicato realizzare. Invece queste persone anziane si sono ritrovate con l’opportunità di parlare a dei giovani e questi ultimi hanno potuto confrontarsi con delle persone anziane in un laboratorio sincero, condiviso, biografico e memoriale. Attraverso un oggetto che diventa un prolungamento, un’appendice concreta dell’esistenza anche a livello corporeo, si ha la possibilità evocativa di un ricordo, di un ritorno alla funzione necessaria.

Per esempio, ieri c’è stato un oggetto che mi ha sconvolto per la potenza iconografica di cui si faceva portavoce: una gavetta. Era una donna molto anziana che parlava del padre che andava in giro con una gavetta durante il periodo dell’ internamento. Su questa gavetta aveva inciso tutti i luoghi visitati durante la guerra. Era un finanziere e tutto il percorso che avrebbe dovuto raccontare, con la speranza di tornare, era chiuso all’interno della gavetta. C’era un altro contenitore, all’interno del quale erano scritti i nomi delle persone a cui voleva più bene. E allora lì ho avuto la risposta concreta di cosa sia la fame: la fame è una cosa che va ben oltre l’aspetto materiale. È vero, c’è fame di fame, ma c’è anche fame di affetto, di luoghi, di percorsi; e penso a quanto poetica fosse questa visione, che bastava un’immagine per racchiudere un racconto straordinario.

Considero quanto poco, oggi, si dia valore agli oggetti perché sono tutti consumabili, subito distruttibili. Soprattutto queste persone anziane parlavano della bellezza della lettera fisica, che fa rumore, che si attende. Una persona ha detto: “Basta con le email! Quanto vorrei togliere l’immediatezza dell’email, del contatto.”

Perché questo toglie l’attesa, e l’attesa è il teatro, e il teatro è la vita, probabilmente.

La Compagnia Carullo Minasi

Delivery Theater - carullo minasi

Carullo-Minasi esordisce come compagnia teatrale nel 2011 con lo spettacolo “Due passi sono”, scritto, diretto e interpretato da Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi. Vincitore di numerosi premi, lo spettacolo apre la Trilogia dedicata al tema del Limite, “limite inteso – scrivono sul proprio sito web – quale risorsa drammaturgico creativa per la definizione di qualsivoglia atto d’arte, nella sua natura prima d’atto politico-democratico”.

La trilogia (di cui fanno parte anche “T/Empio, critica della ragion giusta” e “Conferenza tragicheffimera, sui concetti ingannevoli dell’arte”) definisce un progetto di teatro itinerante presentato in anteprima per il Cartellone del Teatro Stabile di Messina nell’aprile 2014. I tre spettacoli dovevano essere rappresentati infatti in tre luoghi diversi: Teatro, Tribunale e Manicomio.

In occasione del ritiro del Premio ANCT 2017 (Associazione Nazionale Critici di Teatro) la Compagnia Carullo Minasi è stata definita “l’ultima, piccola rivoluzione delle scene teatrali italiane”.

Il testo è la trascrizione adattata dell’intervista andata in onda su Radio Antidoto.
Tutte le foto utilizzate in questo articolo sono di Gianmarco Vetrano e sono state concesse dalla Compagnia Carullo-Minasi.