La psicoterapia cambia volto con il digitale e l’ironia: la ricetta di unobravo.



In Italia sta cambiando la sensibilità delle persone verso la psicoterapia. Non possiamo certo dire che questa disciplina sia ormai sdoganata ma è certo che la situazione sia diversa rispetto a qualche anno fa.

Come tutti i cambiamenti di tipo culturale, anche in questo caso è necessario che passi del tempo affinché si modifichi il senso comune. Ciò può avvenire se si agisce su più fronti: c’è il digitale che fa la sua parte, ad esempio, rendendo più facile l’accesso al servizio. Ma il digitale da solo non può essere determinante.

Forse anche per questo motivo c’è chi ha deciso di trattare con ironia, seppur mantenendo sempre il rigore necessario, un tema delicato come la psicoterapia. Stiamo parlando di unobravo che permette a chiunque lo desideri di trovare online lo psicologo più adatto alle proprie esigenze.

Abbiamo parlato con Danila De Stefano, founder di unobravo, e, oltre a ripercorrere a grandi linee la storia di questa startup, abbiamo parlato di come il digitale da solo non basti per cambiare lo status quo nel nostro Paese.


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unobravo, il servizio che ti aiuta a trovare quello bravo veramente…

… almeno secondo i canoni di chi si occupa della selezione! Scherzi a parte, nella prima parte dell’intervista Danila ci spiega come il punto di forza di unobravo sia dare la possibilità a ogni paziente di trovare lo o la psicologo/a più adatto/a alle proprie esigenze. A monte c’è quindi una selezione che tiene in considerazione ovviamente la formazione del professionista ma anche una serie di fattori umani che hanno un peso sulla scelta del candidato.

Partendo poi dai dati che in questi anni la piattaforma ha raccolto ci facciamo raccontare da Danila il tipo di utenza che frequenta unobravo e le potenzialità e i limiti della terapia online. Piccolo spoiler: tutti i lati negativi potranno essere risolti presto, quando la tecnologia lo permetterà.

La citazione di Danila di unobravo

C’è poi il tema del cambiamento di tipo culturale. In Italia non possiamo certo dire che la psicoterapia sia un tabù, ma possiamo affermare tranquillamente che sia ancora un argomento su cui girano falsi miti. La missione di unobravo è anche quella di cambiare questo “stato delle cose”; per farlo utilizza il digitale ovviamente. E non solo perché le sedute sono online, ma anche perché, periodicamente, questa azienda organizza campagne di sensibilizzazione e utilizza i propri canali social come mezzo di divulgazione.

Comunicazione ironica ma mai superficiale

Come abbiamo sottolineato in precedenza, il digitale da solo non può bastare: per arrivare a più persone possibile unobravo si affida all’ironia. Attenzione! In questo caso “leggerezza” non va associata a superficialità! Lo precisa Danila e racconta che alcuni pazienti e professionisti hanno trovato “offensivo” questo ricorso al nome “unobravo”. “Per fortuna sono pochi”, ammette sollevata la protagonista di questo podcast, ma, per quanto piccolo, questo dato dice molto sullo stato del dibattito pubblico sulla psicoterapia.

Un dibattito che unobravo contribuisce a arricchire attraverso il proprio servizio e la sua comunicazione.


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Foto di copertina di Craig Garner on Unsplash.

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Sindrome dell’impostore: quattro video per riconoscerla e combatterla

Se almeno una volta ti sei sentito non adatto per un particolare riconoscimento che hai raggiunto, non preoccuparti: non sei solo e soprattutto, non sei un impostore. È abbastanza comune tra chi raggiunge un particolare successo sentire di non meritarselo e considerarsi, appunto, degli impostori. E tutto questo nonostante tutti intorno sono lì a dirti quanto bravo e brillante tu sia. È un discorso che vale per gli uomini e le donne che lavorano nei campi più disparati dove la competizione è più alta. La scienza chiama questa sensazione: sindrome dell’impostore.

Mi è venuta in mente la sindrome dell’impostore perché è qualcosa con cui io mi ci sono imbattuto in passato ed è qualcosa con cui continuo a farci i conti ogni tanto. Soprattutto in ambito lavorativo e creativo. Così, ho fatto una piccola ricerca su internet per documentarmi per scrivere qualcosa e mi sono perso a guardare i quattro video che ho elencato qui (e che ho messo anche in una playlist su Youtube). Due sono animazioni che spiegano cosa la sindrome dell’impostore è, mentre gli altri due sono due testimonianze. Vediamole insieme.

The Impostor Syndrome

È uno dei video che fa parte di The School of Life, l’iniziativa fondata da Alain de Botton, scrittore, filosofo e conduttore televisivo. In poco meno di sette minuti il video illustra le principali caratteristiche della sindrome dell’impostore e alcuni modi per combatterla. Il video è in inglese ma potete attivare la traduzione automatica, altrimenti trovate una versione con i sottotitoli in italiano qui.


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What is imposter syndrome and how can you combat it? – Elizabeth Cox

Questa è un piccolo cartone animato che racconta la storia della sindrome dell’impostore, quando è stata teorizzata e da chi. Nella seconda parte, come anche è specificato nel sito, gli autori ci consigliano come superare questo senso di inadeguatezza e accettarci per quello che siamo, cioè non impostori. (Purtroppo per questo video non è presente la traduzione).

Due TEDx Talk sulla sindrome dell’impostore

Chiudo questa piccola rassegna con due TEDx Talk che trattano in modo totalmente diverso il tema della sindrome dell’impostore. Il primo è l’intervento di Phil McKinney, che ha lavorato come Chief Technology Officer da Hewlett-Packard e al momento della registrazione del talk era il CEO di CableLabs. L’esperienza di Phil McKinney è molto particolare perché viene fuori in un modo che lui non si aspettava (In questo video sono disponibili i sottotitoli in italiano).

Ultimo video di questa mini rassegna dedicata alla sindrome dell’impostore ha come protagonista Mike Cannon-Brookes, co-founder di Atlassian, una software company australiana che ha ottenuto numerosi riconoscimenti. Mike Cannon-Brookes racconta di come lui ha fatto i conti con la sindrome dell’impostore in un modo molto semplice, diretto e molto molto divertente (puoi attivare la traduzione automatica in italiano).

La foto di copertina è di Johnny Cohen on Unsplash

Chatbot e essere umani: un rapporto felice e destinato a durare nel tempo



I chatbot sono ormai una realtà: oggi vengono utilizzati dalle principali aziende per lo più nel campo del customer care ma è bene tenere presente che quella che stiamo vivendo è una fase transitoria. Il progresso della AI e una maggiore familiarità con i mezzi tecnologici sta portando infatti i chatbot testuali e vocali a essere adottati in ambiti fino a ieri inimmaginabili. Lo spunto per questo argomento ci arriva da Laila, il chatbot di seconda generazione prodotto da Mazer, azienda campana il cui founder e CEO è il protagonista di questo podcast: Carmine Pappagallo.

Cosa fa Laila, il chatbot di seconda generazione

Laila è una piattaforma tecnologica che permette alle aziende di creare delle vere e proprie interazioni con i propri utenti. I produttori parlano chatbot di seconda generazione perché è una tecnologia in grado di gestire il customer service e il marketing conversazionale, garantendo ottimi risultati in termini di affiliazione e di soddisfazione degli utenti. Laila si basa su una sofisticata Intelligenza Artificiale in grado di elevare la capacità di comprensione del dialogo con l’essere umano a un livello superiore, capace di comprendere le varie sfumature della lingua italiana. L’intelligenza artificiale di Laila è in grado di monitorare costantemente il “sentiment” dell’utente, di interpretarne le esigenze a prescindere dalla qualità del linguaggio da lui espresso, di ricercare la risposta nell’ambito delle informazioni aziendali a sua disposizione e di proporla nella forma che l’utente è meglio in grado di comprendere.

Chatbot e esseri umani: cosa accade dal punto di vista psicologico?

Partendo dalle potenzialità espresse da Laila abbiamo deciso di indagare il modo in cui l’essere umano si rapporta da un punto di vista psicologico con i chatbot. Ci siamo fatti aiutare da Donatella Ruggeri, psicologa, esperta di UX, che lavora presso Idib Group ed è a capo della Settimana del Cervello. Il quadro che Donatella ci restituisce mostra una certa adattabilità dell’essere umano nell’interazione con i bot testuali e vocali.
La nostra analisi parte dalla recensione che la stessa Donatella ha scritto sul chatbot creato dal portale paginemediche.it per permettere agli utenti di sapere se i sintomi che accusano possono essere legati al coronavirus. Un esempio che mostra tutta la potenzialità del chatbot, e soprattutto ne testimonia la familiarità degli utenti con questo tipo di interazioni.
È interessante inoltre notare come cambia il modo di parlare quando da umani ci troviamo a interagire consapevolmente con dei bot. Infine se questo articolo mette in evidenza tutte le potenzialità dei chatbot in ambiti insoliti (come quello del dating online), dall’altro ci sono ricerche che mettono in relazione la diffusione di queste tecnologie con una condizione esistenziale caratterizzata dalla solitudine degli utenti del futuro.

La citazione sul chatbot di Carmine di Mazer

Un futuro prossimo ma ancora lontano, assicura Carmine Pappagallo di Mazer che sottolinea come l’impegno dell’azienda si concentrerà nella diffusione di Laila anche nell’ambito del marketing relazionale, garantendo performance oggi impensabili per team composto da soli esseri umani. Un lavoro avvalorato dalla ricerca che arriva dall’università della Campania che sin dall’inizio ha seguito il progetto Laila e che presto sarà curato anche dall’Ateneo Federico II di Napoli.


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Foto di copertina di Alex Knight via Unsplash

Gestire i fallimenti: una piccola guida che parte da “Tubthumping”

Se siete nati negli anni ’80 ricorderete sicuramente i Chambawamba, gruppo inglese che conobbe una certa fama intorno agli anni ’90 con Tubthumping, brano che trascinava più per il ritmo che per le parole (almeno al me dodicenne faceva questo effetto che potremmo identificare con la seguente gif).

via GIPHY

Avrei dovuto aspettare il 2004, durante il concerto del Primo Maggio a Roma, per realizzare ciò che quella canzone diceva. E non tanto la parte relativa alla dipendenza dall’alcol e le conseguenze che ti portavano a passare la notte in bagno, ma ciò che il cantante cantava durante il ritornello.

I get knocked down, but I get up again
You are never gonna keep me down

Mi ricordo che quella sera, tornando a casa, mi sentivo carichissimo, come se niente e nessuno mi potesse fermare. Sbagliavo? Ma io mi rialzo e nessuno, mai mi avrebbe lasciato lì per terra.

Io per indole non mi ritengo un battagliero, anzi! Forse sono più fifone che battagliero, però la consapevolezza che dagli sbagli io potessi rialzarmi era una cosa che mi emozionava (anche adesso che ho riascoltato il brano prima di iniziare a scrivere ciò che state leggendo) e che prima non avevo ben focalizzato.

Ok, ho sbagliato: e adesso che succede?

Tubthumping dei Chambawamba mi sembrava il modo migliore per introdurre l’argomento di questo post e cioè come gestire i fallimenti. Se infatti ci fa paura sbagliare, dopo aver commesso il fatto la domanda vera è: e adesso cosa accade?

È Rachel Simmons sul The New York Times a mettere insieme una serie di consigli su come gestire al meglio i fallimenti. L’autrice si rivolge a un pubblico prettamente femminile ma sono consigli che vanno bene per ciascuno di noi.

Partire ad esempio dalla considerazione che “tutti sbagliano” è una strategia se vogliamo banale, ma pressoché vincente. E il conseguente bagno di umiltà che ne consegue, ci permette di essere realistici e – soprattutto – di trovare una soluzione, anziché ritirarci in un angolo a disperarci.

Un’altra dinamica che aiuta a gestire al meglio gli errori non è tanto la consapevolezza che “sbagliando si impara”, ma la capacità di giudicare l’azione per quella che è. E il punto di vista è un aspetto per nulla secondario. Vi faccio un esempio: quando sbaglio sono molto più severo con me stesso che con un mio amico e/o collaboratore. A pari gravità di sbaglio, io sarò molto più indulgente con lui che con me stesso. Un altro modo quindi per gestire al meglio i nostri errori è focalizzarci fuori di noi. Io ho iniziato a farci caso da poco e i risultati sono per me tangibili.

Vuoi essere bravo a gestire i fallimenti? Esercitati!

Poi c’è chi decide di esercitarsi. L’uomo è un animale routinario e, in quanto tale, impara a gestire le situazioni ripetendole più volte. È un espediente che solitamente si applica alle cose pratiche e quindi perché non usarlo anche per gestire il fallimento? È il consiglio che dà Rachel Simmons alla fine del suo articolo. Attenzione però, non dice di sbagliare ogni giorno (sarebbe un vero e proprio supplizio), ma piuttosto ci invita a fare qualcosa che ci rende nervosi, prendersi piccoli rischi.

È un po’ quello che ha fatto Jia Jang per gestire al meglio l’essere rifiutato, un aspetto di sé che aveva difficoltà ad accettare. Ha deciso che ogni giorno avrebbe fatto una richiesta assurda a una persona a caso e avrebbe poi dovuto gestire l’eventuale rifiuto. Ha creato un videoblog su youtube che documenta tutto ciò, e a volte ha documentato anche la sua sorpresa quelle volte che piuttosto che un rifiuto, è stato accontentato. È lo stesso Jia che racconta il suo processo di apprendimento durante un TED talk molto spassoso che vi consiglio di vedere.

foto in copertina, un grab dal video dei Chumbawamba

Il tuo parere? Non serve a niente

Uno degli aspetti forse più critici della vita di azienda e del lavoro di gruppo in generale riguarda i pareri sul lavoro dei propri collaboratori. Se fossimo in uno di quei video motivazionali per startupper in erba potremmo dire che “grazie alle critiche l’azienda cresce e il lavoratore diventa più consapevole, eccetera eccetera…”. In realtà chi lavora in gruppo sa benissimo che esprimere un parere sul lavoro svolto dai propri colleghi spesso è una vera e propria rogna per questioni di tempo, visione, aspettative altrui e tatto (per dirne solo alcune, di rogne). Come uscire quindi da questa situazione? Abbiamo fatto un giro nell’internet e le risposte sono pressoché univoche: i pareri non servono a nulla.

Lo scrive chiaramente Bruna Tortorella su Internazionale riportando un articolo di Oliver Bunkerman che a sua volta cita il libro “Nove bugie sul lavoro” scritto da Marcus Buckingham e Ashley Goodall. I due autori sostanzialmente scrivono che “non vale mai la pena dire alle persone quello che secondo voi fanno bene o male, o come farlo meglio”. Anche se lo fate per il loro bene, con gentilezza o semplicemente indorando la pillola: i commenti, feedback o pareri servono a poco o comunque non faranno crescere quella persona professionalmente. Se non volete comprare il libro, potete leggere il post che hanno scritto sull’Harvard Business Review in cui smontano pezzo pezzo tre teorie che stanno alla base del “le critiche aiutano a crescere”.

Se i pareri non servono, le reazioni sono la via

E quindi? Che fare? Non tutto è perduto, tranquilli. In effetti una via per aiutare le persone quando – secondo noi – stanno sbagliando c’è, ed è più semplice di quanto possiamo immaginare. Piuttosto che dire “così non si fa…” o “non avresti dovuto fare così…” è sempre bene dire come ci ha fatto sentire quella determinata azione. Se infatti anziché comunicare quanto non ci è piaciuto il loro lavoro cerchiamo di spiegare loro come ciò che hanno fatto ci ha fatto sentire andremo dritti al punto.
Il fatto è che nessuno ha la ricetta per fare le cose al meglio. C’è l’esperienza che può guidarci in un lavoro, ma la storia ci insegna che a volte fare le cose in modo diverso può darci un risultato migliore. Da qui ne scaturisce che ognuno dovrebbe essere libero di raggiungere la soluzione come meglio crede. Occhio che se estremizzate troppo questo concetto si arriva al caos e si va fuori tema. Se restiamo in parametri come lo stile o l’approccio personale a una attività, allora non c’è una regola unica: se una cosa funziona per uno (e porta risultati ottimi) non è detto che funzioni per gli altri. Va da sé che la critica sul metodo non porta a nulla perché magari il destinatario di quella critica ha un approccio diverso dal vostro.
Portando invece il feedback su un piano più personale, di reazione, le cose cambiano. Quelle sono veramente sensazioni solo nostre e restituirle al mittente non può che fargli bene. E occhio che questo vale di più in positivo che in negativo! Scrive Oliver Bunkerman (sempre nella traduzione di Bruna Tortorella) su Internazionale:

il modo migliore per elogiare qualcuno non è valutare il suo talento ma dirgli come ci ha fatto sentire. Dopotutto, è straordinariamente arrogante fare i complimenti a qualcuno perché è un bravo scrittore, stratega, compagno di squadra e così via: chi ci autorizza a giudicarlo? Ma elogiarlo perché ci ha ispirato, convinto o aiutato a capire un argomento complesso è una cosa completamente diversa. Di questo gli unici veri giudici siamo noi.

Approcci pratici alla gestione dei pareri

Un approccio approvato anche da altri autori: Dave Bailey in suo articolo su medium chiama in causa addirittura l’approccio nonviolento. Basandosi principalmente sull’empatia, Dave guida il lettore in un ragionamento a trecentosessanta gradi su come comunicare al meglio i pareri all’interno del team. Tra le varie tecniche consigliate da Dave mi ha molto colpito la regola delle 40 parole. La descrive così (la traduzione è mia):

Durante le conversazioni difficili, è importante essere estremamente concisi. Cerca di descrivere le tue osservazioni, i tuoi sentimenti, i tuoi bisogni e le tue richieste in meno di 40 parole. Usare più parole suggerisce che stai giustificando i tuoi bisogni, e questo diminuisce il potere delle tue frasi.

C’è chi invece, come Claire Lew, suggerisce qualcosa di ancora più semplice. Un accorgimento utile soprattutto a chi è a capo di un gruppo di persone e desidera avere un giudizio sul proprio operato. Se si chiede espressamente al proprio team un’opinione su ciò che si è fatto è sempre bene sostituire la parola parere (feedback) con consiglio (advice). Scrive Claire su medium (la traduzione è sempre mia):

La parola “feedback” porta con sé un carico molto pesante. Alcuni la associano automaticamente a una “critica” o a qualcosa di negativo. Può quindi avere un suono spaventoso e formale.

Mentre “consiglio” è una parola molto più accogliente. Il consiglio viene associato molto più facilmente al concetto di dare una mano a qualcuno. Quando qualcuno ti dà un consiglio spesso è perché vuole prendersi cura di te.

Se questo articolo vi ha convinto, condividete questo articolo con il/la vostra/o collega criticona/e, magari aggiungendo un cuoricino, e ditegli che lo fate per il bene del vostro lavoro.

Foto di copertina di Camylla Battani, via Unsplash

Volete fare scelte migliori? Provate uno di questi principi

A metà novembre Mark Manson, autore per il NYTimes e del libro La sottile arte di fare quello che c***o ti pare, ha scritto sul suo blog Cinque principi da seguire per fare scelte migliori. Io provo a farne una sintesi, l’articolo in inglese lo trovate qui.

Considerare il valore di ogni idea

Ogni decisione importante ha un suo valore finanziario, un valore emotivo, sociale e così via. Per prendere la giusta decisione è necessario considerare ognuno di questi “valori” e soppesarli. Ma attenzione! I valori potrebbero cambiare con il tempo: quindi è importante considerare sia il corto che il lungo periodo.

Per natura cerchiamo ricompense che arrivano nel breve periodo inseguendo il valore emotivo di una scelta. Purtroppo siamo spesso incapaci di vedere chiaramente i benefici a lungo termine di una scelta perché diamo un peso maggiore alle nostre paure e ansie, che sentiamo più vicine e presenti. Così come siamo poco predisposti a abbandonare qualcosa su cui abbiamo lavorato per tanto tempo o – ancora peggio – pensare che magari abbiamo sbagliato qualcosa (e stiamo ancora sbagliando).

Una regola che spesso funziona è quella di accettare i piccoli fallimenti che accadono nel breve termine ma che ci consentono di raggiungere il nostro obiettivo finale, certamente più importante. È questo che la maggior parte delle persone non riesce a fare ed è proprio qui che risiede il maggior numero di possibilità per avere successo.

 

Perdete di proposito (almeno a volte)

Alzi la mano chi non ha mai sentito la storia di un imprenditore che ha fallito decine di volte prima di avere un successo incredibile. Ogni volta che leggiamo questo tipo di storie, l’insegnamento che ne traiamo è che bisogna perseverare, perseverare, perseverare… e che queste persone sono state davvero fortunate perché alla fine ce l’hanno fatta.

Ciò che non consideriamo – dice Mark – è che tutti quei tentativi sono state delle scommesse in cui o si perdeva poco o si vinceva tantissimo. Se qualcuno vi desse un paio di dadi e vi dicesse che è disposto a darvi 10.000€ nel caso in cui uscissero due numeri uguali e che ogni tiro costasse 100€, voi non provereste fino a quando non esce la coppia?

Spesso pensiamo che nella vita abbiamo a disposizione un solo tiro di dadi: in realtà, ne abbiamo a disposizione molti di più, se non un numero infinito, molti di più di quelli che possiamo immaginare. Basta quindi adottare questo approccio alla vita di tutti i giorni. Alcuni esempi:

  • A lavoro proporre idee con la consapevolezza che il 90% di esse non avrà futuro, ma che, se accettate, vi permetteranno di dare una accelerata pazzesca alla vostra carriera;
  • Dare ai vostri figli compiti complessi sapendo che loro non li vorranno nemmeno vedere. Ma se lo faranno, voi avrete offerto loro un enorme vantaggio sugli altri bambini;
  • Non essere troppo esigenti nella scelta della persona con cui uscire, rimanendo però estremamente fermi su chi siete e su cosa volete con la consapevolezza che la maggior parte delle persone non sono affatto compatibili con voi;
  • Comprare libri difficili e non aspettarsi che tutti vi saranno utili o addirittura che sarete capaci di capirli: concedetevi però la possibilità che almeno uno di questi volumi vi possa cambiare la vita;
  • Dite di si a ogni invito che vi fanno anche se pensate che quell’evento sia solo una seria minaccia al vostro sonno: non potete mai sapere quando e dove incontrerete la persona che può cambiare la vostra vita.

Questo breve elenco di situazioni ci permette di capire il valore di una azione nel breve e nel lungo periodo: rileggendole con calma intravedrete come tutti gli scenari descritti riservano una possibile “vittoria” alla fine.

Trattate le vostre emozioni come trattereste il vostro cane

Si dice che il cane assomigli sempre al padrone. Mark sostiene che il livello di disciplina di un cane rifletta la maturità emotiva e l’autodisciplina del padrone perché la connessione che noi stabiliamo con il nostro amico quadrupede è puramente basata sulle emozioni. E quindi dovremmo cercare di trattare le nostre emozioni come se fossero il nostro animale da compagnia. Se ci fate caso sono molto simili tra loro: sia un cane che le nostre emozioni sono spinte solo dal desiderio di mangiare, dormire, scopare e giocare, senza alcuna consapevolezza delle conseguenze o dei rischi delle proprie azioni. Anche per questo è importante addestrarle.

Le nostre emozioni sono importanti ma non possiamo permettere loro di prendere il sopravvento. Ci servono per avere la passione e la spinta necessaria per fare le cose ma non possiamo ridurre tutto a quello, sarebbe limitante. Il lavoro ci aiuta ed è l’addestratore di cani per le nostre emozioni. L’addestratore sa dove far leva per fare in modo non che il cane perda la sua vitalità, ma che sia capace di usarla dove è più necessario, al momento opportuno e soprattutto, per uno scopo ben preciso.

Non condanniamo le nostre emozioni, addestriamole piuttosto.

Organizzare la propria vita in modo da avere meno rimpianti possibili

Quando si prende una decisione è importante valutare il ruolo dei rimpianti. Proviamo a considerare le scelte che abbiamo davanti in base a rimpianti che pensiamo di avere se scegliamo una o l’altra strada. Secondo Mark questo è il vero modo per capire ciò che vorremmo realmente fare. Spesso abbiamo paura di fallire ma se ci chiedessimo: “Potrei poi rimpiangere di non aver fatto una determinata cosa?” e ci rispondessimo “Si”, allora possiamo correre il rischio. Se iniziamo a considerare i rimpianti che possiamo avere allora inizieremmo a accettare molte più sfide.

Non dovremmo più basare le nostre decisioni su successo/fallimento o felicità/tristezza, ma in base ai rimpianti che potremmo avere se non facessimo quella cosa. Sono questi il miglior metro con cui misurare la validità delle nostre azioni nel lungo periodo.

Scrivere

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Un modo per orientarsi nella confusione dei propri pensieri è scrivere quello che ci passa per la testa. Ci sono un sacco di tool e strumenti che possono aiutarci, ma – assicura Mark – scrivere ci impone di organizzare e concretizzare (almeno su un foglio) tutto quello che ci passa per la testa in successione: i pensieri fumosi avranno una struttura. Inoltre la scrittura ha il potere rivelare la logica dei propri pensieri (o la sua totale assenza) e ha la potenza di mostrare anche gli aspetti più nascosti delle proprie considerazioni.

E se non ci va di scrivere proprio tutto, possiamo però almeno scrivere i costi e i benefici di una determinata azione, aggiungendo anche i termini temporali di un particolare beneficio e/o costo. E possiamo anche scrivere le motivazioni che ci spingono a compiere un’azione. Ad esempio, perché iniziamo un nuovo progetto? Qual è la molla che ci spinge a farlo? Scriverlo ci permette di guardare in faccia il vero motore che sta dietro alla nostra azione e capire così se ne vale veramente la pena.

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Psicologia e startup: è un connubio possibile in Italia?



In occasione della Settimana del Cervello Start Me Up dedica due podcast a questo organo fondamentale e racconta di storie e progetti che hanno a che fare con la psicologia. La prima storia che vi raccontiamo è quella di Idego, portale di psicologia digitale ideato – tra gli altri – da Simone Barbato. Simone spiega agli ascoltatori cosa si intende per psicologia digitale, quali sono le implicazioni e come il loro team lo sta interpretando.
Il discorso poi si sposta in modo più generale su come la psicologia viene percepita in Italia e soprattutto come, dal punto di vista imprenditoriale, può essere messa a frutto. Lo diciamo subito, lo stato delle cose non è roseo, però di buono c’è che qualcosa sta cambiando e il digitale ha un suo ruolo in questo processo. È lo stesso Simone a ammettere che solo un cambio culturale può portare a considerare la psicologia per quello che è: una risorsa utile non solo per curare ma soprattutto per prevenire. Da qui si possono immaginare i potenziali ambiti in cui potrebbe essere utilizzata, che potrebbero essere ulteriormente moltiplicati grazie alle nuove tecnologie. Basta guardare all’’Estero dove la psicologia ha un suo ruolo anche all’interno delle aziende e alcuni psicologi italiani iniziano a scoprirlo: o – con qualche difficoltà – mutuando lo stesso percorso all’interno del nostro paese oppure lavorando direttamente per le aziende straniere grazie al digitale.
Il fronte che Idego cerca di esplorare al momento è quello della psicologia sportiva. Anche grazie all’uso di VR sono tanti i progetti riabilitativi che questi ragazzi stanno seguendo. Un modo per differenziare l’offerta, trovare nuovi mercati, ma soprattutto ribadire che la psicologia riguarda tutti noi.

La citazione sulla psicologia di SImone di Idego

Cosa è la settimana del cervello?

La Settimana del Cervello (Brain Awareness Week) è una celebrazione fuori dal comune e dagli schemi. La sfida globale lanciata dalla Dana Alliance for Brain Initiatives dà l’opportunità di concentrare l’attenzione sulle scienze del cervello e sull’importanza della ricerca in questo ambito.

In Italia la Settimana del Cervello è promossa da Hafricah.NET, portale di divulgazione neuroscientifica che da oltre dieci anni fa divulgazione dei più recenti studi del settore, attraverso la raccolta degli eventi su questo sito web.


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